di Stefano “cariboo” Serena
Tantissimi mi parlano del Tor come esperienza totalizzante, viaggio mentale e non di una gara, di un viaggio nella natura, di lotta alle proprie paure, di simbiosi con la montagna. Di una classifica che non conta se non per i primi venti…
Ho avuto la fortuna di fare o di correre il Tor quest’anno per la prima volta ed ero agitato per due cose alla partenza e nelle settimane precedenti: primo, ero convinto di aver fatto il passo più lungo della gamba, e questa volta sul serio. Secondo, ero alla partenza di una gara molto impegnativa.
Si, ero alla partenza di una gara. Perché il Tor è una gara, anche per me che sono arrivato a Courmayeur in 127 ore e 227° classificato.
Malgrado i suggerimenti preziosi di amici illustri del mondo ultra endurance, ho fatto parecchi errori da principiante, soprattutto alle basi vita. Se non hai assistenza, prendi la sacca Tor, cambiati, lavati, sistemati i piedi, prepara lo zaino, mangia, fisio se serve e dormi se serve. Fai tutto in quest’ordine, suggerisce Luca (Guerini ndr). Giusto il tempo di una base vita e tutti i miei piani vanno all’aria: mi trovo a girare in infradito con del cibo in mano
“Allora? Usciamo dal lì o no? Una vita in vacanza?” mi scrive Graziana (Pè ndr) in un messaggio, vedendo che sono ancora in base vita.
Col senno di poi, la sola gestione delle basi vita può farti recuperare 5 o 6 ore. Con una gestione meno “vacanza a Rimini” anche dei ristori si possono recuperare altre 2 o 3 orette.
Fin dal primo controllo volevo sapere in che posizione fossi. Sì, dal primo controllo.
All’inizio solo per capire come stessi andando. La Thuile 260esimo, prima base vita 490esimo poi sempre meglio. 340esimo, 320esimo attorno al 310 per un po’, poi sotto i 300 nei ¾ gara, poi sempre meno fino a capire che potevo stare sotto le 130 ore e ben sotto la trecentesima posizione.
Solo al Malatrà capisco e sono sicuro che posso davvero arrivare alla finish line attorno alle 20 del venerdì. Capite che per uno che non era sicuro di arrivare in fondo o al massimo arrivare di sabato mattino nella migliore delle ipotesi, si stava delineando una vera top performance… e piangevo. Dal Malatrà ho pianto credo 5 o 6 volte.
Sono arrivato a Courmayeur correndo e saltando sotto l’arrivo alle 19,11 del venerdì. 227esimo in 127ore e 11 minuti.
Pazzesco. Incredulo. Ho concluso uno degli endurance trail più duri e spettacolari in meno di 130 ore; ad oggi non ci credo.
Ma allora? Tutta sta storia della testa, della simbiosi con la natura, delle paure e quant’altro?
È presente eccome.
Se non hai una forza mentale che ti sostiene, quando alle 3 del mattino, da solo, in una discesa ti viene una scossa violenta al ginocchio sinistro che non ti fa camminare e non capisci cosa sia, ti perdi d’animo.
Invece ti fermi, ti calmi, cerchi di capire che succede e provi a camminare. Vedi che passa un po’ e continui. Non passa del tutto allora ti fermi. Ti siedi, apri lo zaino, prendi una benda elastica autoadesiva e ti fai una fasciatura più o meno a caso e prendi un antidolorifico. Chiudi tutto, ti alzi e riparti.
Vedi che funziona e arrivi in base vita.
La testa al Tor serve a questo. A non perderti d’animo nelle difficoltà.
A lasciare il tepore del rifugio di notte con il freddo e il vento quando sai che hai davanti 15 km di nulla con un colle da passare.
La testa serve a portare il tuo bel culo a Courmayeur!
Anche la simbiosi con la natura deve esserci. Sei lì per quello. Diversamente saresti a una gara di crossfit sulla spiaggia a Riccione.
Ma a quello, noi gente di montagna, siamo abituati. Nulla di nuovo sul piatto. Siamo lì anche per quello. E’ la norma.
E quindi di cosa stiamo parlando?
Di una gran bella gara endurance in montagna. No un viaggio, no vacanza, ma una gara che ognuno dovrebbe affrontare al meglio delle proprie capacità.
Non è una gara di corsa e non fa schifo come dice qualcuno. Anzi, è una grande figata da affrontare seriamente. Io questo l’ho fatto a metà perché non avendo quella “spinta da garista” che contraddistingue chi mette pettorali spesso, sono andato piano e sicuramente al di sotto delle mie capacità. Sono sicuro di questo e col senno di poi me ne rammarico.
Perché il Tor non deve essere un trekking veloce organizzato? “Non bisogna partire con l’idea che il Tor sia un bel viaggio o un’avventura, al massimo lo puoi pensare alla fine…” mi ha detto Sonia (Glarey ndr) il giorno dopo che assieme a Luca siamo stati a provare una tratta del Glaciers e io ero spaventato della mia gara.
Ed ha ragione. Il Tor è una gara, non un viaggio.
Sono convinto che tanti che partono con l’idea del viaggio, potrebbero fare meglio se partissero con l’idea della gara.
Mettersi in gioco con i propri limiti, non è solo fare i 350km e 27mila metri di dislivello, ma farli al meglio, più forte possibile. Io sono convinto di questa cosa.
Ho letto l’articolo di Paco su questo blog dove dice che il Tor fa schifo perché è un trekking rovinato e non una gara di corsa.
Al massimo ti fa schifo caro amico mio, ma non fa schifo in linea generale. E sì, non è una gara di corsa, ma un ultra endurance trail e così va affrontato. E’ una specialità diversa dal trail running. Lo specialista dei cento metri piani non sarà forte nei tremila siepi. Si corre sempre nello stadio, ma sono specialità diverse. E non fanno schifo né una né l’altra. Una piace e una no. Punto. Idem sono il Tor e una 100miglia trailrun. La Parigi-Roubaix e la Transcontinental Race in bici. Una piace e una no, ma nessuna delle due fa schifo a prescindere. Al massimo ti fa schifo.
Il Tor è una grande figata di gara, è una grande sfida con te stesso, con gli altri e con un crono. E così deve essere.
Al contrario, non mettere il pettorale.