FLEX YOUR HEAD

Premessa: spero che ciò che scriverò serva puramente come riflessione. Abbiate l’intelligenza di leggere il tutto per ciò che è: un esercizio di osservazione del mondo in cui opero e lavoro, lo spunto per creare una discussione aperta.

Non sono ovviamente uno specialista, ma nonostante la psicologia sportiva in Italia sia assolutamente sottovalutata e poco considerata, a me invece affascina molto e nell’ultimo periodo mi sono dedicato ad approfondire alcuni temi.
Ho provato a creare dei profili di corridori basati su alcuni schemi mentali e atteggiamenti che ho vissuto e notato da altri corridori.

Non volendo essere uno di quegli allenatori “tabellari” che ti danno la scheda di allenamento e apposto così, credo che questi stimoli siano utili per capire i propri limiti di valutazione e giudizio e per provare a migliorare nel proprio lavoro. Attendo quindi le vostre osservazioni e riflessioni .

Corpo e mente separati
Partiamo da questa evidenza: corpo e mente fanno parte della stessa persona e non sono due cose scollegate. In Occidente siamo molto inclini a viverlo come dualismo e quindi come due entità nettamente separate e questo si ripercuote anche nella medicina: ci fa male una caviglia e curiamo la caviglia, non la persona. La verità (evidente) è che se il corpo sta male, anche la mente sta male, e viceversa. Non si parla solo di effetto placebo, ma del dare un peso anche al lato emotivo del paziente, con la comunicazione giusta e della percezione di se stessi nel superamento degli infortuni fisici.
Tuttavia ci raffrontiamo a noi stessi come se avessimo in noi due entità separate. Quante volte diciamo che un atleta è “forte di gambe ma debole di testa” o ci convinciamo che una cosa si fa “di testa”, come se si stesse vivendo un conflitto tra la mente e il corpo e la mente faccia fare al corpo qualcosa che non vuole?
Ovviamente questa visione è molto radicata in noi, ma ha anche molti limiti, che emergono soprattutto in un periodo di stress enorme, come quello che stiamo vivendo. Restrizioni della libertà individuale, slegamento e affievolimento di rapporti sociali e traumi dovuti a lutti, perdita del lavoro e mille altre motivazioni possono portare l’atleta alla perdita di interesse per il proprio sport.
Sentirsi deboli, svogliati e stanchi molto spesso non è dovuto solo alla condizione fisica, visto che i nostri carichi di allenamento possono anche essere sempre gli stessi: può essere soprattutto mentale.

L’unica gara è con te stesso
Grande, bellissima frase e concetto importante. Tuttavia, in un momento come questo suona assolutamente fuorviante per un corridore che, in assenza di gare, non trova più lo stimolo per uscire ad allenarsi.

È chiaro: molto spesso l’idea di un arrivo o di una gara ci aiutano ad uscire a fare quell’allenamento in più quando magari piove, o fare quel lavoro che troviamo proprio duro. Tuttavia, bisogna andare più a fondo e capire il motivo del perché corriamo, in quanto la corsa non è solamente uno sport, ma uno stile di vita: c’è una bella differenza tra il tennis e la corsa, perché puoi anche essere appassionato di tennis, ma non puoi metterti a fare battimuro come stile di vita, o fare pugilato se sai che non combatterai mai. Al massimo fai fit boxe e ti alleni con un saccone, ma non è boxe. Correre senza un avversario o un partner o in una situazione non di gara rappresenta invece, nella corsa, gran parte della vita di un corridore.

Cosa rappresentano quindi quella gara, o le gare, per me?
può rappresentare una realizzazione personale, o una realizzazione rispetto agli altri. Come prima cosa bisogna riconoscerne la matrice. È chiaro che se ho smesso di trovare le motivazioni per uscire a correre perché gli eventi sono sospesi (nel momento in cui non esiste una limitazione legislativa reale) l’importanza che do alle gare supera quella che do alla corsa di per se stessa, come pratica individuale.

Attenzione, ognuna di queste cose va vista solo in un mondo teorico, perché nella realtà non esistono distinzioni così nette e marcate nella personalità di un individuo. Sono idealtipi che aiutano la categorizzazione e la riflessione.
Da una parte quindi abbiamo l’individuo che smette totalmente di correre, dall’altra quello che ha avuto una risposta a questo stress allenandosi ancora di più e in mezzo tutte le varie sfumature possibili.

Il fennec, o volpe del deserto ha orecchie smisurate che lo aiutano a disperdere il calore del deserto

Introversione/estroversione

sperando che Jung non si ribalti nella tomba, ecco una rudimentale spiegazione del concetto:

“L’individuo estroverso è principalmente orientato verso il mondo esterno, tende perciò a focalizzare la sua percezione e il suo giudizio sulle persone e sulle cose, mentre l‘introverso è una persona principalmente orientata verso il mondo interno con la tendenza a focalizzare la propria percezione ed il proprio giudizio sui concetti e sulle idee.”

Quindi a questo punto la domanda diventa:
la gara è importante per me o per gli altri?

Bisogna riflettere un attimo se l’appagamento che riceviamo dall’arrivare in fondo a una gara sia egoistico o rivolto all’approvazione altrui.
Attenzione: non esiste un giusto o sbagliato, sono solo spunti di riflessione che servono a capirci meglio e porci delle domande (se non l’abbiamo mai fatto) sulla nostra personalità.


Atleti molto competitivi estroversi
Gli atleti molto competitivi sono quelli che tendenzialmente sono molto estroversi, ovvero, portano il focus sugli altri. In molti casi l’affermazione dipende dal battere gli altri. Il limite è ovvio: in un anno in cui non ci sono gare se ne va la possibilità di confronto con gli altri, di misurarsi con una classifica.
Una soluzione potrebbe essere quella delle sfide virtuali o del focalizzarsi sui segmenti di Strava. Se le gare virtuali per gran parte dei corridori rappresentano al massimo un passatempo momentaneo legato alla situazione, per questi atleti possono invece rappresentare uno stimolo su cui impegnarsi con dedizione e serietà anche in allenamento.
Questa è ovviamente la categoria di atleti che più risente della situazione pandemica, anche se l’impegno maggiore è quello di trovare un obbiettivo che ci appaga e che non venga vissuto in modo superfluo.

Atleti molto competitivi introversi
In questo idealtipo raccoglierei quegli atleti che mirano alla competizione, ma come crescita personale, e non sono poi molto interessati dalla classifica di gara. In poche parole traggono piacere e motivazioni dal miglioramento, che è tuttavia basato non dal confronto diretto con gli altri, ma con se stessi. Una possibile soluzione alla carenza di motivazione, se sono una persona molto introversa, potrebbe essere quello di concentrarmi su un FKT, che sia nuovo o da ripetere, e dedicarsi a quello. Un mio progetto personale, un percorso che sogno da tempo, un determinato crono su una distanza e così via.
Tendenzialmente un atleta molto competitivo introverso non dovrebbe perdere lo stimolo anche di fare massacranti lavori in allenamento, perché il piacere che trae da questi è la sua crescita personale. Questi atleti potrebbero vivere l’impegno di un FKT in modo più totalizzante e competitivo di altre persone, e goderne la parte più agonistica.
Pensate ad atleti come Luke Nelson che già da anni prima della pandemia trovano più appassionanti gli FKT che alle gare, dove possono vivere esperienze più totalizzanti e non solo legati all’agonismo.

La pitecia dalla faccia bianca è un mammifero che vive in Sud America

Atleti poco competitivi estroversi

Un’altra categoria di persone che definirei competitiva ma estroversa è rappresentata dal corridore di qualsiasi livello (ma non alto da essere rilevante in classifica) a cui piace gareggiare sia come scusa per un confronto con gli altri, ma soprattutto per l’evento e la condivisione del tempo (gara come raro momento in cui non si corre da soli).

È evidente che in questo caso è molto più difficile trovare qualcosa di simile, e forse l’unica soluzione è rappresentata dall’organizzare qualcosa con gli amici, in autonomia.
Queste persone risentono della socialità degli eventi e hanno bisogno di sforzarsi a trovare un gruppo di riferimento con cui condividere la propria passione.

Atleti poco competitivi introversi
Questi sono quelle tipologie di atleti che traggono passione dalla crescita personale e dai miglioramenti quotidiani in allenamento, a prescindere dal resto del mondo. Questi sono quegli atleti che invece di perdere motivazione per la corsa ci hanno contattato per iniziare un percorso con DU proprio durante la pandemia.

Vediamo adesso qualche nozione di livello generale sul rapporto emozionale dell’atleta con la corsa:
La gestione delle emozioni
La gestione delle emozioni è una capacità che solitamente diamo per “innata”, ma sbagliando, in quanto allenabile, come un’altra competenza. Se mettiamo sulla linea di partenza di una campestre 100 adolescenti e misuriamo il loro stato d’ansia (anche banalmente con un cardiofrequenzimetro) avremo ovviamente dei valori molto diversi tra loro. La forchetta dei valori (quasi impossibile che i battiti saranno quelli “di riposo” ma tutti li avranno più alti) va da un incremento relativo a uno altissimo.
Questo aumento di frequenza cardiaca è dovuto per larga parte dallo stress della gara.


Non tutto lo stress è negativo
La nostra percezione comune nel linguaggio di stress è negativo, ma non è così. In buona sostanza, se sottoposti a “stressors” ovvero a fattori che provocano stress – come può essere la starting line di una gara- il sistema corpo/mente cerca una risposta di adattamento di vario tipo (endocrino, umorale, organico, biologico). Questa compensazione allo stress è per esempio la base dell’allenamento, in cui, sottoposto allo stress, andiamo a migliorare le nostre capacità fisiche di adattamento a esso tramite una super compensazione.
Detto ciò chiaro che le fonti di stress e le capacità delle persone di riuscire a trasformare questo stress in positivo e non negativo sono molto personali.

l tamarino di Goeldi o tamarino saltatore deve il suo nome al tizio che l’ha scoperto, ovvero Emil August Goeldi.

Quindi, andiamo a vedere un paio di fattori di stress diversi tra loro:


Gestione della gara e degli allenamenti
Esistono atleti che in partenza sono tranquilli, altri provano inadeguatezza, si sentono inadatti, impauriti, terrorizzati.
A parità di allenamento, cosa cambia nella mente di uno e quella dell’altro?
La volontà e l’accettazione di non poter controllare fattori esterni che non dipendono da noi stessi. Questo permette agli atleti della prima categoria di trovare il giusto distaccamento e di concentrarsi sui fattori rilevanti (ascoltare il proprio corpo) e non i fattori esterni (il pubblico/ lo stato di preparazione degli altri/ le condizioni meteo/ la durezza della gara).

Ora, voglio portare qualche esempio di atleti vicini a me o spesso risultanti di riflessione derivate sui miei stessi comportamenti. Molto spesso come allenatori facciamo l’errore di valutare le persone come “ingestibili” o assegnargli dei limiti che possono sembrarci incomprensibili, ma che se riconosciuti possono essere comprensibili e quindi anche elementi su cui lavorare con l’atleta:

Atleta che non sa riposare
Ci sono atleti che fanno veramente fatica a concepire il riposo come parte integrante dell’allenamento. Devono fare per forza qualcosa ogni giorno e se gli avanza del tempo libero lo investono sull’allenamento. I pro sono ovviamente una dedizione senza fine che li aiuta nel momento in cui si va incontro a fasi di preparazione intense, i contro sono invece che, nel momento di un banale infortunio (cosa che nella corsa su lunga distanza capita spesso) o di impedimenti di qualsiasi tipo nello svolgere l’allenamento, l’atleta va in crisi.

Questo tipo di atleti soffre più degli altri gli intoppi nella preparazione, e rischia di non sentirsi pronto nei momenti importanti. Inoltre, sono quelli che fanno fatica ad autogestirsi se lasciati da soli.
la domanda da porsi è:
come vivo il riposo? Mi infastidisce? Come vivo qualcosa che non va secondo i miei piani nella preparazione o in gara?

Atleta che stacca a fine anno e quello che non sa staccare
Ci sono atleti che in off season hanno bisogno di dimenticare le corsa e concentrarsi su altri stimoli, mentre altri continuano sempre a correre.
Sono naturalmente due tipi di comportamento assolutamente accettabili e normali, se non diventano problematici. Un atleta che non fa off season si espone spesso a infortuni così come quello che stacca troppo e rischia di fare fatica a “rimettersi in carreggiata” anno dopo anno, e come sappiamo tutti, ciò che più ripaga in uno sport come la corsa è la continuità. Più ci si prendono periodi lunghi di stacco dalla corsa, più è difficile riprendere con intensità quando necessario: non siamo macchine con interruttori ON/OFF.
Che tipo di atleta sei? Fai fatica a staccare o a riprendere, da dove viene questo bisogno?

Concetto di insicurezza
Normalmente molti atteggiamenti partono da una comune origine che risiede nelle insicurezze personali. Molte di queste sono la risultante di esperienze vissute in passato, altre sono dovute agli schemi mentali con cui ragioniamo di solito e spesso vengono definite come caratteriali. Vediamone alcune:

Atleta che compete solo in gare dove sa di vincere
Questa è una cosa che vediamo di costante in molti atleti italiani “di alto livello”. Se possono scegliere tra il competere con i top al mondo e riportare a casa mazzate o vincere la garetta di paese senza fatica protendono per la seconda opzione. Perché?
Il senso di appagamento dovuto alla vittoria del trail dell’Eroe Locale agisce come stimolo che frena la competizione per cui ci sentiamo inadeguati.
Non è facile per un atleta molto competitivo estroverso consultare una classifica dove ha preso varie ore di distacco dagli altri. Allo stesso modo, questo tipo di insicurezze personali va a innescare altri comportamenti, spesso ancora più nascosti:

Atleta che preferisce non esplorare il suo potenziale per il rischio di fallire
Questo è il caso dell’atleta che ha un grosso bisogno di conferme alle proprie insicurezze (acclamazione del mondo a lui vicino / sapere di essere uno che “avrebbe potuto ma”) perché trova più semplice e gratificanti piccole vittorie irrilevanti che il rischio di fallire sottoponendosi ad un test con esito incerto.
Un po’ come l’esempio sopra, ma a livello introspettivo: è il concetto di autosabotazione, che molto spesso porta persone a essere i principali limitatori di sé stessi.
Lavorare su questo aspetto è difficile perché l’atleta deve saper lavorare sulla sua personalità, accettare un potenziale fallimento e non dargli un eccessivo valore (“ho sbagliato sono un fallito”), ma riuscire a ricercare in sfide a lui adeguate, uno stress positivo e non negativo, che lo porterà a migliorarsi. Posso utilizzare un fallimento per motivarmi per fare meglio la prossima volta; posso dare un valore effettivo a un fallimento; non esiste al mondo un singolo atleta nella corsa che non abbia mai fallito.
Domanda: come gestisco i miei fallimenti? Quanto peso do a queste esperienze? Riesco a coglierne degli aspetti positivi?

Atleta che non sa accettare i miglioramenti
Diverso dalla tipologia descritta sopra, questi sono atleti che, anche di fronte a un’evidenza, fanno fatica ad accettare i propri miglioramenti. Non significa essere umili, ma andare a stravolgere la realtà valutandola con i propri personali strumenti interpretativi. Un po’ come nel caso di un disturbo alimentare, la separazione tra realtà e pensiero interno arrivano a diventare patologici. Sono atleti quasi totalmente intrinseci, portati a guardare se stessi e quasi ad annullare la realtà esterna. Sono quegli atleti che non riescono a trarre felicità anche dopo aver raggiunto un obbiettivo per cui si sono allenati molto.
Ogni tanto bisogna fermarsi e accettare i progressi dei propri sforzi profusi in allenamento, e i conseguenti miglioramenti. È molto difficile, ma avere a fianco una figura esterna ma consapevole, come quella di un allenatore, può aiutare. L’allenatore aiuta a giudicare in modo oggettivo, anche tramite l’aiuto di dati, il percorso dell’atleta.

La grande scimmia leonina è stata portata all’estinzione dai cacciatori per via del suo bell’aspetto

Atleta che salta in aria / atleta troppo premuroso
Esistono atleti che non sono bravi a gestirsi in una situazione di gara o allenamento e quelli che invece non riescono quasi mai a rendere per il loro potenziale.
Anche in questo caso i primi fanno fatica a valutare il reale livello proprio e degli altri e si distruggono uscendo a un passo troppo alto dopo lo start; mentre i secondi hanno paura di poter fallire e corrono sotto le proprie potenzialità.
Se ci accorgiamo di protendere troppo in una delle due categorie possiamo provare a chiedere al nostro coach di inserire degli allenamenti fatti apposta per migliorare.
Fare un allenamento molto al di sopra delle nostre possibilità o che ci costringa a imparare a gestirci, obbligandoci ad andare a un passo “sensato” possono aiutarci in tal senso.

Atleta troppo / troppo poco flessibile
Il giorno della gara qualcosa va storto: hai dimenticato le scarpe con cui volevi correre e devi fare la gara su delle scarpe da strada invece che da trail; sei nel gruppo di testa e sbagli a un bivio perdendo 5 minuti; non trovi la tua crew ad attenderti dove ti aveva detto che sarebbe stata e così via.
Come reagisci?

Ci sono atleti che sono così schematici da non riuscire a risolvere dei problemi che spesso capitano nel nostro sport. Allo stesso tempo, ci sono atleti che devono migliorare la propria strategia e imporsi una maggiore disciplina perché ne valgono i miglioramenti cercati con l’allenamento. Un atleta troppo flessibile rischia di non essere in grado di trovare una routine che invece è basilare nelle gare di una certa distanza, un atleta inflessibile ha bisogno di sentirsi dire delle cose che già sa.
che tipo di atleta sono? Come potrei diventare più o meno flessibile?

La corsa come strumento di rimozione dello stress negativo
Senza entrare nelle retoriche trite e ritrite delle endorfine che tanto ci piace leggere sulle testate generaliste, diciamo che la corsa per molti di noi è lo strumento principale per la gestione di paure, stress e anche il superamento di traumi di vario tipo a livello emotivo.

Questo è un concetto molto delicato e che secondo me merita un discorso a parte, e mi piacerebbe affrontarlo in un secondo momento. Se avete trovato utile quanto detto finora e pensate che un ragionamento su questi temi possa essere utile per la vostra auto profilazione come atleti possiamo andare ad approfondirlo.
E tu che atleta sei?
Spazio ai commenti!

Qualora non fosse stato chiaro ho inserito delle immagini fuorvianti di animali per alleggerire la lettura, vista la tematica delicata. Il fatto di dare al cervello stimoli diversi per fargli perdere il focus principale è una tecnica largamente utilizzata, sopratutto a fini commerciali, per vendere all’individuo oggetti di cui non ha bisogno distogliendolo dalla capacità di razionalizzare.
Spero abbia funzionato (anche se non sto vendendo nulla) ad alleggerire la tematica.

AID STATION FOODIE: Cornbread

Il mio primo incontro con il Cornbread è stato in un buffet pieno di delizie southern in Arkansas.

Mi ha conquistato il suo gusto e la consistenza particolare che ben si adatta ad accompagnare sia il dolce che il salato.

Originario degli stati del Sud, quella del Cornbread pare essere una delle ricette più antiche al mondo. Le sue origini risalgono ai nativi americani, dove l’utilizzo del mais era molto diffuso. Venendo io da una zona dove la coltivazione del mais (o granoturco) è molto importante, mi ha incuriosito subito.

La ricetta base del cornbread prevedeva un semplice impasto di farina di mais con acqua, ma tra le mani dei coloni, l’impasto è stato arricchito con farina di grano, latte, uova, zucchero, lievito e si è diffuso in tutto il paese tanto da diventare uno dei piatti tipici del Thanksgiving.

Oggi si possono trovare centinaia di diverse declinazioni del Cornbread: quello Tex-Mex vede l’aggiunta di chicchi di mais fresco, formaggio cheddar e peperoni jalapeno, nel South è solitamente salato, viene servito con burro ed è l’accompagnamento più comune ai piatti principali, fino alla versione New England che tende invece ad essere più dolce soffice e leggero.

A volte più zuccherato a volte meno, questa è la mia versione di Cornbread che utilizzo spesso anche come recovery post gara o come alternativa solida durante i lunghi: basta tagliarlo a quadrotti mono dose ed imbustarli in un sacchettino con zip. E’ un cibo con pochi grassi e tanti carboidrati facilmente assimilabili anche grazie alla presenza della farina di mais che non contiene glutine.
Nella sua semplicità, resta uno dei cibi più apprezzati post corsa ai Camp di DU.

CORNBREAD

Ingredienti:

150 gr di farina 00
150 gr di farina di mais
50 gr di zucchero di canna
6 gr di lievito
una punta di cucchiaino di bicarbonato
½ cucchiaino di sale
250 ml di latticello*
50 ml di olio di semi
1 uovo intero

*Potete farlo in casa unendo 125 ml di yogurt naturale, 125 ml di latte e qualche goccia di limone

Procedimento:

In una terrina uniamo gli ingredienti secchi: farine, zucchero, sale, lievito e bicarbonato. In una seconda terrina quelli liquidi: l’uovo, l’olio ed il latticello. Uniamo i liquidi ai secchi amalgamiamo bene con una frusta a mano in modo da non formare grumi. Trasferiamo in una teglia imburrata, di 22 cm possibilmente in ceramica o ghisa.
Cuociamo in forno preriscaldato a 190° per 25 minuti circa.
Opzionale possiamo spennellare la torta ancora calda con una noce di burro.

CORNBREAD (VERSIONE VEGAN)

Ingredienti:

150 gr di farina 00
150 gr di farina di mais
50 gr di zucchero di canna
6 gr di lievito
una punta di cucchiaino di bicarbonato
½ cucchiaino di sale
275 ml di latticello*
50 ml di olio di semi

*Potete farlo in casa unendo 125 ml di yogurt di soia, 150 ml di latte di soia e qualche goccia di limone

Procedimento:

In una terrina uniamo gli ingredienti secchi: farine, zucchero, sale, lievito e bicarbonato. In una seconda terrina quelli liquidi: l’olio ed il latticello. Uniamo i liquidi ai secchi amalgamiamo bene con una frusta a mano in modo da non formare grumi. Trasferiamo in una teglia oliata di 22 cm possibilmente in ceramica o ghisa.
Cuociamo in forno preriscaldato 190° per 25 minuti circa.

Mari – Aid Station Foodie

BOOKWORM aka le librerie dello Staff DU: LA SALUTE NELLA CORSA di Blaise Dubois e Frédéric Berg

Sono stato un runner molto fortunato: ho capito subito che se volevo correre in una certa maniera, dovevo gestire il mio corpo in un certo modo. Prese subito le dovute distanze, ho raramente avuto contrattempi fisici e meno che mai infortuni gravi. Predisposizione personale, fortuna ed anche un minimo di merito nell’aver saputo ascoltare il mio corpo, ma mi rendo conto che i primi due fattori sono stati decisivi.

Iniziando ad allenare, ho vissuto i primi infortuni dei miei atleti come vere sciagure: facevo fatica a capire, mi davo buona parte della colpa e andavo in ansia in un momento in cui il mio/la mia atleta aveva bisogno di tutt’altro. Fortunatamente ho trovato tra fisioterapisti, osteopati, chiropratici, fisiatri ed altri colleghi persone molto preparate che mi hanno aiutato a capire. Penso sempre che ciascuno dovrebbe fare il proprio lavoro, e quindi lascio agli specialisti il compito di affrontare infortuni, magagne e problemi, ma la ricerca e lo studio mi hanno aiutato a capire meglio come certe dinamiche legate alla corsa e all’allenamento possano portare a certi problemi.

La Salute nella Corsa è il libro che avrei voluto avere sette/otto anni fa quando incominciavo a scornarmi su libri di anatomia e biomeccanica: un insieme chiaro, ben fatto e facilmente consultabile di nozioni scientifiche applicate allo specifico della corsa. Il libro tratta sia la parte legata alla corsa vera e propria, affrontando tecnica, allenamento, prevenzione e performance, che gli altri aspetti legati ad alimentazione, idratazione o le specificità di alcune categorie. Ma la parte forse più interessante è quella centrale dedicata ad infortuni, prevenzione, conditioning e la salute in generale.

Ogni argomento è trattato con cura e con l’intervento di un esperto titolato. La base del libro è scientifica e vengono sempre riportati i riferimenti alle ricerche e pubblicazioni da cui sono tratte le informazioni: in un mondo dove vige l’autoproclamazione ad esperto del settore, è una boccata d’aria fresca.

Certo, in un volume di quasi 500 pagine, vi capiterà di trovare qualche punto che non condividerete, o qualche soluzione semplicistica o difficilmente applicabile, ma va dato atto agli autori di aver creato una raccolta omnicomprensiva facile da consultare e circostanziata.

Un ottimo libro da tenere in libreria e consultare all’occorrenza.

Coach D

Blaise Dubois e Frédéric Berg, La Salute nella Corsa, 2020, Mulatero Edizioni, € 35,00

Mulatero Editore

Boxing Day Workout: The King George VI Chase

Curiosi di sapere cosa c’entra una delle più prestigiose corse di cavalli al mondo con un workout di Santo Stefano? Scaricatevi la scheda e buon divertimento! #DUboxingday

Con l’occasione lo Staff DU vuole mandare un grosso GRAZIE a tutti i nostri atleti e non, alle loro famiglie e a chiunque in questi 12 mesi non facili ci ha supportato, aiutato, spronato e spinto a crescere ancora, come coach e come persone. Ci sono stati tanti momenti in cui ci sono tornate in mente le parole dette da Rick Tortini alla fine di dieci ore di pacing nel caldo californiano “this is why we do what we do“, ed il merito è vostro.

#likecrewlikeglue

Mari, Davide, Paco, Tommy

BOOKWORM aka le librerie dello Staff DU: L’ ASCESA DEGLI ULTRARUNNER di Adharanand Finn

Dopo aver divorato i suoi due libri precedenti frutto di due soggiorni prolungati in Kenya e Giappone, ero molto curioso di vedere come Finn se la sarebbe cavata con l’ultrarunning. Immaginavo avesse in mente qualcosa di simile dopo averlo riconosciuto (e molestato) a Col Gallina durante la LUT, e difatti ecco il libro.

Nel libro c’è il suo processo di avvicinamento e scoperta, come sempre condito da interventi di personalità del mondo ultra ed atleti di altissimo livello. Scorre veloce e nelle parole dell’autore è facile identificarsi: sono momenti e situazioni che tutti noi abbiamo vissuto o in cui ci siamo trovati. Le crisi, i momenti di esaltazione, l’attesa, la comunità.

Forse il limite del libro è proprio questo, il fatto che è scritto più per i non addetti ai lavori che per chi quel mondo lo mastica già. E contrariamente ai suoi due lavori precedenti viene a mancare tutto l’aspetto che secondo me Finn è bravissimo a documentare, quello dell’impatto con una cultura completamente diversa. E se posso fare un appunto, tutta questa enfasi per il dolore e la capacità di sopportazione sono una visione un po’restrittiva del mondo corsa/ultra, che rischia di catalogarci sempre e solo come “quelli a cui piace stare male”.

Detto questo, è scritto con il suo solito stile asciutto ma non impersonale e si fa leggere volentieri anche grazie ad una traduzione di qualità e attenta anche ai termini e modi specifici della nostra amata attività. Consigliato, se non altro per viaggiare un po’con la mente verso gare lontane.

Coach D

Finn Adharanand, L’Ascesa degli Ultrarunner, 2020, Piano B edizioni, € 18,00

The Way of The Runner Website
Piano B edizioni

Finn all’arrivo a Cortina

Transamericana – il film di Rickey Gates

Se penso alla cinematografia del settore outdoor il processo che c’è stato è più o meno questo (sono ovviamente solo esperienze e opinioni personali).


Ai tempi delle superiori riuscivo, tramite riviste, fanzine e tante ricerche su qualche rudimentale motore di ricerca, a trovare dei documentari sugli sport di nicchia di allora. Perlopiù tamarrate tipo freestyle motocross e snowboard/surf. Erano sport talmente di nicchia che a volte erano vere e proprie scoperte (sul serio ti puoi lanciare giù in MTB dai canyons, cadere e non morire?)
Ci voleva una settimana per scaricarne il 50% a casa dell’unico amico con un adsl e ci trovavamo a vedere questi filmati in loop, imparando la colonna sonora a memoria e osservando le riprese perlopiù artigianali in modo ossessivo.
Il tutto aveva un atteggiamento molto punk, che alla fine ha portato alla nascita di sport come lo snowboard e appunto il freestyle/freeride in mountainbike o su una moto.
Si parla di Travis Pastrana quattordicenne che faceva trick adesso considerati per bambini che però sembravano futurisici, o dei fratelli Kratter che scendevano una ringhiera con la tavola e facevano vita di party: “training kills pilots” si diceva in quei tempi.
I primi documentari sull’arrampicata che ricordo sono King Lines e Reel Rock. Qualche video su Sharma che lancia su un buco urlando e poi vola, cose che replicavi nel muro di mattoni sotto casa.
Della corsa non c’era traccia, uno sport così noioso non aveva alcun fascino per un adolescente di allora, e nessun mercato in generale. Le gopro non esistevano e le riprese in POV non erano concepibili.

Arrivato YouTube in breve ha iniziato a crescere e la società è cambiata drasticamente.
Il livello qualitativo si è abbassato per via dell’amatorialità delle riprese, ha raso al suolo (o costretto a reinventare) la professione di videomaker professionista, perché chiunque poteva farsi un video. Da lì in poi chiunque avrebbe rischiato l’osso del collo per una ripresa, lo facevamo anche io e i miei amici, anche se avevamo forse solo una macchina fotografica usa e getta e facevamo colletta per stampare le foto dal fotografo.

Anni dopo, internet è diventata la quotidianità e la nostra vita, come sappiamo, e la cinematografia di conseguenza è cambiata. Si è iniziato non solo a leggere di UTMB, ma anche a vedere qualche trailer di lancio. Di quei tempi ricordo i brevi video di Seb Chaigneau, una sorta di tutorial, e quelli di Kilian, voluti da Salomon che grazie al catalano è diventata ciò che è.
Erano video semplici, a metà tra gli advertising delle aziende e piccoli spezzoni di loro consigli o report di gara. Il livello si è ovviamente alzato ancora, di sicuro grazie alle aziende che hanno iniziato a finanziare questi media fino ad arrivare a dei veri e propri video o documentari sulla corsa.

Già, una volta ho avuto dei capelli


La curiosità di sana scoperta dei primi video nasceva dai luoghi in cui correvano e poi, grazie al successo dei reality e dell’annullamento della privacy tramite internet, la curiosità si è spostata verso aspetti più intimi,  quello che adesso definiremmo “lo storytelling”, ovvero la storia che c’è dietro le riprese, ma anche e soprattutto la vita dei corridori, cosa mangiano, come si allenano e  dove vivono.
Un processo di crescita ed esposizione ai media che ha avuto aspetti positivi e negativi.
Se prima vedendo un video di tricks sponsorizzato da RedBull potevi eccitarti come un bambino poi il tutto (almeno per me) è diventato assolutamente piatto.
La curiosità che prima avevo di sapere che materiali venivano usati ha lasciato posto a marchette infinite, loghi martellanti delle aziende finanziatrici e video senza storia e sempre più piatti, perché buttati nello stesso scatolone. Vedere un atleta che si stappa un energy drink e esegue il suo trick mi emoziona come fare il bucato.

Ho iniziato a partecipare come spettatore a film festival e rassegne cinematografiche sull’outdoor e anche lì ho avvertito un appiattimento generale e delle aspettative spesso disilluse.
Tolto qualche sporadico caso di film che ancora mi piacciono, come quelli di Joel Wolpert, il resto ha preso un’accezione così smaccatamente commerciale e dettata dai voleri delle aziende che il più delle volte vuole mostrare l’azienda prima della personalità dell’atleta, plasmarne i valori e ciò che dice, agendo come una censura religiosa dove serve e trasmettendo il solo e unico messaggio “siamo perfetti e bravi, tu compra”.
Cosa che è oramai diventata un modus operandi alla luce del sole anche nell’editoria di settore: se da una parte democratizza i mezzi (chiunque crea contenuti), dall’altra appiattisce tutto verso il basso. Vi giuro che su una rivista poco tempo fa ho letto queste righe sul report di viaggio di due ragazzi in Asia mandati dall’azienda che ha una sede produttiva:

“La soglia di povertà è altissima e tutti vivono di una vita semplice. All’occhio dell’occidentale potrebbe sembrare, oltre che molto difficile, anche assai noiosa la quotidianità, spesso non c’è la concezione del cosa fai nel tuo tempo libero? Si resta tutti uniti, si va al bazar, si passano le ore a pregare in moschea o in famiglia.
[…]
Certo, anche in fabbrica c’è un ritmo sostenuto, ma c’è l’allegria di un ambiente sereno dove, oltre a imparare un mestiere, si insegna l’educazione e il rispetto per se stessi e gli altri”.


Ok, questa cosa è apparsa su una rivista di settore nel 2020, non in un manifesto di propaganda novecentesca a sostegno del colonialismo, non mi dilungo oltre, ma credo che due domande dovremo iniziare a farcele.
Per inciso, non ho nulla contro i video aziendali, quelli di Nike spesso sono autentici capolavori, solo che mi piacerebbe ci fosse una distinzione chiara e marcata tra un video commerciale e uno che non lo è, come nell’editoria e in ciò che stiamo leggendo.

Torniamo a noi.
Film Festival, poco tempo fa ho assistito alla proiezione e ho pensato che molti dei film o corti li avrei dimenticati nel tempo di uscire dalla sala proprio perché privi di contenuti interessanti, sociologici, psicologici e di reale contenuto.
Certo, spettacolari riprese dal drone, gopro avanzate e stabilizzate, posti magnifici e grandi riprese. Ma tutto qua, niente di più. In alcuni non esisteva nemmeno una narrazione, era solo la ripresa del gesto atletico da una telecamera.

Se mi chiedete cosa ho visto non saprei di preciso:
– un video di sciatori in fresca che si danno il 5 dopo aver saltato qualche pietra
– un tot di trama idealtipica alla The North Face (che impresa difficile/nessuno ci è mai riuscito/ ho avuto dei drammi familiari in passato/ vinco l’ostacolo/ riesco nell’impresa/ che bello lo sport come scuola di vita)
– un tot di POV montati assieme alla menopeggio
– qualche video di posti favolosi ripresi dal drone dove se guardi bene l’attore si muove al rallentatore o in modo più legnoso di un giocatore di football che segue la traccia dello schema che hanno deciso debba giocare.

Per questo motivo l’ultimo film di Rickey Gates, supportato da Salomon, mi ha stupito positivamente. Non ci sono chissà che riprese, la storia mi è apparsa onesta, affascinante e interessante.
C’è un progetto dietro personale, non c’è la solita caccia al record (dichiara subito i suoi intenti e cita il detentore) e c’è un ragionamento socioculturale di fondo, magari anche un po’ forzato, ma comunque presente lungo tutta la durata del film.

Insomma, io ne consiglierei la visione, perché credo possa piacere sia a un addetto ai lavori che a uno vergine del nostro sport.

Ok, c’è questo lieto fine un po’ palloso, ci sono un po’ di stereotipi qua e là e la colonna sonora non è ricercatissima, ma in generale a me è piaciuto molto, soprattutto se gustato con calma e senza la smania con cui di solito attacchiamo i video in modo bulimico su YouTube.

Non è il film perfetto, non è così tanto di nicchia negli argomenti e nella storicità, ma almeno non è la solita caricatura di un video commerciale tirato per molti minuti, ho passato una buona oretta di vita e non la rimpiango. Credo ne valga la pena vederlo.

Via Alpina: 1st attempt

Credevamo non fosse facile gestire un’estate senza gare: invece è bastato pungolarli un po’ ed hanno trovato mille modi diversi per trovare lungo. E a proposito di lunghezza, pochi hanno mirato così lungo come Francesco. A chi affascina l’idea delle traversate, a chi esalta il multiday, a chi piace l’idea del viaggio o anche solo a chi è curioso di sapere cosa vuol dire mettersi in moto per quattro giorni di corsa, ecco il racconto di Francesco Piovesan.

Passare in casa più tempo del solito è stato per me sinonimo anche di guardare più Youtube del solito e cercare di prendere spunto su qualcosa da fare in sostituzione delle gare di quest’anno. Era da qualche tempo che stavo pensando ad un multi-day che, su consiglio del Coach, sarebbe stato interessante combinare ad un FKT.

Vivendo in Svizzera, è piuttosto semplice partire da un punto e fermarsi in qualsiasi piccolo paese per prendere un bus o un treno e tornare a casa. L’idea iniziale era di fare 200km, numero tondo, e vedere quanto ci mettevo. Avevo scelto per questo un tratto della Via Alpina, una serie di itinerari sulle Alpi, da Trieste a Montecarlo. Chiaramente non potevo registrare l’FKT di un tratto della Via Alpina, quindi ho preso l’itinerario Verde che attraversa la Svizzera (ok…e il Liechtenstein) e ho deciso di provare a farlo tutto. Partenza da Lenk im Simmental, nelle Alpi Bernesi, e arrivo a Sücka, nel Liechtenstein. Secondo il sito ufficiale, 280km e 17000m di dislivello. E qui c’è stata la prima lezione: i dati che si leggono online potrebbero non essere precisi.

Via Alpina Verde, una passeggiata di salute di 280 km (forse…)

Il sito però offre una guida molto dettagliata sul percorso e la quantità di informazioni presente mi spinge a preparare un Excel in cui prevedo orari di partenza e arrivo dei singoli giorni, nonché luoghi di sosta intermedi dove poter comprare del cibo reale. Ecco la seconda lezione, che deriva dalla prima: è probabile che se le distanze non sono quelle che pensi, una tabella con orari e soste programmate serve a poco. 

Programmo comunque il materiale per 4 giorni, cercando di minimizzare quanto possibile. D’altro canto devo correre, mangiare e dormire. Devo però tenere in considerazione che il percorso si snoda tra valli relativamente calde e passi vicini a ghiacciai. Arrivato il giorno della partenza, peso lo zaino che, considerando 1L d’acqua, sarebbe arrivato a 5,6 kg. Penso che tutto sommato non sia tanto, ma dopo i primi 80km inizierò a cambiare idea.

Il primo giorno é il più duro, con due passi a 2800m e la distanza maggiore da coprire. So che non devo forzare molto il ritmo perchè poi lo pagherei nei giorni successivi. E comunque voglio anche godermi un po’ il panorama, che monti come l’Eiger e lo Jungfrau possono assicurare. Così infatti arrivo a sera, entrando nell’hotel alle 23.00 sotto la pioggia. Unico problema incontrato un dolore alla caviglia, che però riesco a risolvere correndo con la scarpa allacciata solo sopra la pianta del piede. Un aspetto invece molto positivo è la segnalazione del sentiero, che coincide con il percorso svizzero numero 1, rendendo la traccia GPS praticamente inutile.

Il secondo giorno inizia da dove il primo aveva finito, ossia con la pioggia. E così continua fino a mezzogiorno. Il bello è che una coppia che avevo incontrato il giorno prima e faceva il percorso in senso opposto mi dice che il tratto che avrei fatto appena sveglio era il più bello. Mi accontenterò delle foto…degli altri. Mi fermo in un paese per mangiare qualcosa di caldo e, contando nel fatto di trovare cibo familiare, entro in un ristorante italiano. Prendo una zuppa di patate che altro non è che purè allungato con un po’ d’acqua, molto poca. Riparto ancora sotto la pioggia e dopo qualche minuto capisco che qualcosa nel mio stomaco non va…

Jungfrau

Nel pomeriggio il tempo migliora ma non riesco a godermi più di tanto la giornata e, anche se riesco a continuare a mangiare Snickers, la nausea mi obbliga a fermarmi prima di dove diceva il mio Excel. Saltano quindi tutte le prenotazioni degli hotel, ma dato che gli Svizzeri sono di media buoni e gentili, mi rimborsano tutte le notti anche se non era previsto da Booking.

Il giorno successivo si rivela il migliore, non sento particolare stanchezza e il tempo è clemente. A colazione cambio tattica e invece di svegliarmi presto e mangiare al sacco, svaligio il buffet.  Ripeto lo stesso il quarto giorno, ma il fatto di aver passato più di 72 ore da solo, incontrando principalmente mucche e pecore, inizia a farsi sentire sulla testa. Il classico grüezi (“ciao” in svizzero-tedesco) non mi esce più molto bene. C’è anche da dire che la distanza massima che avevo corso prima di quel momento erano 120km e inizio ad accusare qualche dolore.

Englestlensee

E’ comunque una bella giornata da passare sui monti quindi vado avanti, ad un ritmo più lento, ma comunque correndo. Decido di fermarmi nel tardo pomeriggio dopo 250km, sapendo che non me ne mancano altri 30, ma, secondo la mappa, più del doppio. Seduto al tavolino di un bar, con una meritata birra in mano, penso per un istante a ripartire il mattino successivo, ma decido di chiudere questo tentativo e far tesoro delle lezioni imparate per il prossimo anno. Non c’è fretta.

Un tempo lo facevamo tutti

Testo di Elena Adorni

 

Capitolo 3: Destination Santa

 

Alla fine di settembre compio trent’anni. Da anni mi ero promessa di giocarmi il rito di passaggio all’età adulta correndo 50km in montagna. Quelle cose che dici ad alta voce, quasi per ridere, ma rimangono dentro di te e poi bisogna farci i conti.

Quando ho conosciuto Eva me ne sono ricordata. Era dicembre a Santa Caterina e faceva freddo. Si scivolava sul vialetto e il giardino era coperto di neve e Ombra giocava con le palle di ghiaccio invece che con i bastoncini. Destreggiandoci tra un’uscita con le pelli e l’altra, Eva è riuscita a convincermi che la corsa non è solo uno sport da white daddy inglese di classe media, ma che l’ultrarunning può avere la sua buona dose di quella che io chiamo ‘ancestralità’. Poi è arrivata la primavera, e poi è arrivato il Covid. Con un fisico mezzo a pezzi dopo un inverno in Canada vivendo in un camper, sciando prevalentemente in pista per migliorare il livello e lavorando come lavapiatti, di colpo mi sono trovata da un giorno all’altro in Italia, nel paesino in cui sono cresciuta, il luogo da cui ho cercato in tutti i modi di scappare per più di dieci anni. Qualcuno mi aveva detto che la vita è una spirale, non proprio una linea retta.

Non sono mai stata una persona paziente, ma ho pensato che quello sarebbe stato il momento di cominciare ad allenarsi. Ho iniziato a correre segretamente lungo il fiume, nel boschetto dietro casa dei miei genitori. In piena emergenza Covid, il piano di allenamento pensato dal DU coach Tommaso dava struttura a giornate molto incerte. Con tutti i piani di vita e lavoro messi in standby, il mio compagno dall’altra parte del mondo ed una pandemia mondiale in corso, il calendario di training peaks è diventato la mia ancora di salvezza al tempo presente. Non importava se quel giorno avessero proclamato lo stato di emergenza in Cile e che il paese stesse collassando, che George Floyd fosse stato ucciso dalla polizia  o che i morti in USA e Brasile avesse superato i centomila.

Sono qui, ora, e in questo momento devo mettere le scarpette e uscire a correre.

La mia percezione del tempo è cambiata da prima della pandemia. I mesi sono diventati più lunghi e i giorni più veloci. Ho dovuto imparare a fermarmi, a non pensare al futuro. E la corsa, in questo, è la più grande maestra. In un rollercoaster di emozioni e cambiamenti, è arrivata dall’alto come un deus ex machina nei momenti tragici della mia esistenza per dirmi all’orecchio: rimani qui, andando avanti. Ho corso per trenta minuti, un’ora, due ore, poi tre, poi cinque. Ho corso da sola la maggior parte del tempo, quasi sempre con la musica sparata nelle orecchie. Ho corso lungo il fiume della mia infanzia, pieno di serpenti neri e deturpato dall’uomo e dalle centrali idroelettriche.

Ogni tanto ho corso anche con altre persone. Nicolò e Gabriele mi hanno aiutato a fare i primi lunghi. Abbiamo raccolto piume di poiana e celebrato un funerale ad un capriolo sbranato da un lupo. Con Eva abbiamo guadato un torrente in piena arrampicandoci su un tronco scivoloso e instabile. La corrente era così forte che dovevi urlare. Quando siamo arrivate dall’altra parte, ci tremavano le gambe per l’adrenalina. La montagna ci ha reso un po’ sorelle e quella baita di legno con i fiori e le bandierine, in due settimane è diventata un po’ anche casa mia.

Arrivo a Santa Caterina Valfurva il pomeriggio prima della gara. Eleonora, che è venuta con me, ci aiuta a preparare i premi gara che sono dei taglieri di legno fatti a mano da Luigi, l’uomo più grande del mondo che viene sempre all’agriturismo a bere vino rosso e taneda a qualsiasi ora. Quando le prime persone arrivano, inizio a collegare volti a nomi letti online ed email scambiate nelle nicchie virtuali del nuovo outdoor italiano. Dopo una corsetta di trenta minuti in cui quasi mi si stacca un polmone durante un allungo per la disabitudine alla quota, mangiamo una pasta al pesto, faccio il fuoco e decido di andare a dormire molto presto. Per poco non mi perdo Banana che distribuisce in un rituale silenzioso i bellissimi pettorali di stoffa. Prima di addormentarmi, la mia amica Eleonora, che non corre, mi dice che non capiva cosa volesse dire ‘distribuire i pettorali’ e pensava che ci saremmo messi tutti in cerchio a fare dei push ups in giardino alle undici di sera.

Mi sveglio alle sei. I cinque temerari che corrono la corsa di 80km sono partiti già da un’ora. Medito, faccio stretching come in una mattina qualsiasi. Faccio colazione guardando il cielo e l’alba, che arriva dorata sui camper bianchi nel prato. Sarà una bella giornata, farà caldo. Non capisco dove vadano a finire le due ore dedicate a prepararmi, sono già quasi le 8 e faccio lo zainetto di fretta, mettendo dentro tutto a caso ma non troppo. Mi agito un po’ e non trovo il mio Garmin dell’anteguerra. Non sono riuscita ad andare al bagno a comando, dannazione, spero di non farmela addosso lungo la strada. Alla partenza, Banana ci invita a non guardarci i piedi, ma a guardare su in alto e intorno a noi, perché il percorso sarà davvero bellissimo.

Partiamo con il campanaccio. La folla composta da una trentina di persone si divide in tre gruppi. Gli spavaldi davanti. Poi altri due mucchi di corpi che corrono, chi con zaini grandi, chi con zaini piccoli, chi con niente. Rimango da sola, in coda, prendendo il mio spazio e cercando fin da subito di non seguire nessuno e tenere il mio ritmo. La salita inizia praticamente subito e corriamo tra baite e boschetti. Mi ritrovo dietro Maria Carla e Davide che chiacchierano tranquilli. Al primo bivio tutti sono incerti. Ho imparato a memoria le parole chiave da seguire come un mantra, ma le ho anche scritte per sicurezza su un foglietto che tengo nella tasca dei pantaloncini e che presto sarà ridotto a poltiglia bianca. Forse il gruppo degli spavaldi ha sbagliato strada iniziando a salire. ‘Confinale, Cavallaro, Pradaccio, Zebrù’, recito nella mia mente. Prendo il sentiero che sono convinta sia giusto e perdo il gruppo, voglio rimanere dietro tutti e non seguire nessuno. Il Garmin dell’anteguerra, sballato dalla quota, perde la connessione per 2km circa finché non me ne accorgo e lo riconnetto, ma ormai la distanza percorsa non è più corretta. Poco male, lo guardo solo per ricordarmi di mangiare e fuck the rest. Allo scoccare di ogni ora butto giù un gel e un pezzetto di barretta religiosamente. Altrettanto religiosamente, cerco di tenere le borracce piene e di idratarmi tanto. Ad un altro bivio mi ritrovo con tre tizi che mi scambiano per una local. Hanno un gps ma non sanno usarlo. Si presentano, ma mi dimentico i loro nomi. Uno dei tre mi chiede se sono una di quelle forti che corre a livello nazionale e se sono sola. Triste come alcuni maschietti si sentano di esprimere giudizi sulle abilità femminili anche durante una gara che è più una corsa tra amici che una competizione. Decido di lasciare il femminismo a casa e fare finta di non sentire. Non lascio mai commenti del genere impuniti, ma devo davvero risparmiare le energie mentali oltre che quelle fisiche per arrivare in fondo a questa cosa. Non posso nemmeno superarli perché consumerei troppo gas. La butto sul ridere. Gli dico che sono i tre moschettieri. Corrono insieme, pisciano insieme e hanno tutti e tre gli stessi calzini.

Inizio a vedere le indicazioni per Passo Zebrù e cresce la mia preoccupazione per la salita della muerte. Faccio andare avanti Atos, Portos e Aramis che vanno belli spediti con i loro bastoncini-spada. Fa caldo per essere a duemila metri. Il sole batte, io non ho neanche un cappellino, ma sopravviverò. Mi ricordo del mio PJ sandwich e lo mangio al km 18. Game on. Mentre mastico il pane molliccio mi sento una specie di rettile per il modo in cui muovo la bocca. Di tutta quella salita ho ancora ricordi un po’ confusi. So solo che era tanta. E’ strano come anche in gara cambi il senso del tempo, che passa velocissimo nel presente ma poi si dilata nella memoria. Vado piano, e penso alle parole di Banana. Alzo la testa dai piedi e guardo intorno, chiedendo un aiutino alla pachamama. Le montagne grigie e bianche mi abbracciano. Dopo guadi di ruscelli e tante rocce per quello che penso siano due ore di salita, vedo la neve. Si cammina sulla neve, non si corre perché si scivola ma chi è passato prima di noi ha fatto degli scalini quindi è piuttosto facile. Mi animo, se c’è la neve siamo quasi arrivati. Prendo un gel appena prima dell’ultimo tratto di salita. Mi fa venire un conato di vomito vuoto. Sento il campanaccio di Eva e la voce di Eleonora che grida forzaaaaaa. Arrivo su, mangio un pezzo di barretta. Eva mi dice: stai bene? Io: si. E inizio a volare giù fino al rifugio Pizzini, cercando di andare più veloce che posso senza schiantarmi e senza che i miei quads si straccino.

Tengo un bel ritmo per un po’, corro nei prati viola e freschi, con l’erba che mi tocca le caviglie. Cerco di distendere le dita dentro le scarpe e di sentire il terreno sotto la pianta del piede. Quello è stato il pezzo di percorso più memorabile, e non solo perché fosse il più corribile. Mentre mi fermo a prendere acqua ad un torrente incontro un tizio che si chiama Enrico, sembra tranquillo, gentile ma soprattutto silenzioso quindi decido di correre con lui per un po’. Andiamo avanti spediti, passiamo il ghiacciaio dei Forni maestoso ballonzolando sui ponti tibetani. Siamo più o meno a 30km e sento le forze un po’ mancare. Enrico prende il lead, mangio un pezzo extra di barretta. Lo seguo, non lo perdo mai di vista, accelero. Ci sono ancora salitine stronze che arrivano all’improvviso e che non piacciono ai miei quads. Ma continuo. Uno, due, uno due. Corriamo e scivoliamo su rocce rosse e bellissime che sembra quasi di essere su un altro pianeta. Poi intorno al km 32 il sentiero diventa corribile e single track. Ci sono tanti, tantissimi turisti. Si insinua nella mia testa il pensiero da outdoor supremacist del tipo ‘che palle perché non stanno a casa, buttano pure i fazzoletti a terra ma lo scaccio subito via. La montagna è inclusiva e non esclusiva e se queste famiglie vanno a vedere un ghiacciaio invece di andare al centro commerciale, è una cosa bella. Ma cerco di risparmiare anche in questo caso le energie mentali. Mi fermo a fare pipì e arriva Paco, che dice che si era perso. Corre un minuto con noi e poi accelera velocissimo e lo vedo sparire. Ma come fa, mi chiedo. Al km 38-39 mentre riempivo l’acqua sento una voce che urla ‘stiamo venendo a prendervi’, era Paco. Metto il turbo. Nel boschetto che mi da tregua dal sole a picco penso ad Hector e a quanto sarebbe bello vedere il suo viso tra qualche chilometro. Mando giù l’acqua salata accumulata negli occhi. Non è il momento per la malinconia. Continuo ad inciampare ma è come se ci fosse una forza magnetica che mi tiene su e non mi fa cadere. Vado più veloce che posso e inizio a vedere segni famigliari nel paesaggio, la casa a pallini, il ponticello delle ripetute, accelero ancora di più. Perdo Enrico, mi chiedo se è così gentile da farmi andare avanti e non accelerare. Ma non importa. Adesso c’è solo l’arrivo.

Non gareggiavo da anni e non avevo mai corso una maratona, ma mi ricordavo che gli arrivi fossero fatti di applausi, campane e high fives. Invece non c’è quasi nessuno. Due, tre facce sconosciute sedute a un tavolo che probabilmente erano arrivate la sera prima quando ero già a dormire. Pensavo fossero già tutti arrivati e si stessero lavando al campeggio. Sento Banana che mi vede e urla ‘attenzione’. Il percorso della maratona era di circa 42 km, sapevo già che avrei dovuto farne altri nove da sola per arrivare a 50. Mi piacciono i numeri tondi, che ci posso fare? Eva, che avrebbe dovuto correrli con me, non c’è. E’ dovuta rimanere su al passo per problemi tecnici. Non mi arrabbio, mi basta l’abbraccio di Banana per buttare giù l’ultimo gel e ripartire verso la strada forestale. E’ strano continuare a gareggiare contro te stesso quando tutti hanno finito, non c’è la stessa spinta, ma lo faccio, mentre le gambe mi chiedono di smettere ma non stanno nemmeno messe così male alla fine. Mi dimentico quasi perché lo sto facendo. Cosa ci faccio lì da sola correndo pianissimo su quella stradina sterrata in salita? Potrei farne altri 20, forse. Il Garmin si scarica. Forse la prossima volta. Arrivo alla baita per la seconda volta, stavolta ci sono più persone. Il cuore mi batte forte, ce l’ho fatta. Paco dice: come ci si sente ad aver corso 50k? Mi sdraio a terra a quattro di spade. Pensavo peggio. Sento il sollievo. Sento tranquillità e pace. Eva dopo un po’ arriva e urla scusaaaaa e mi abbraccia.

Con la prima birra scopro aneddoti vari. Qualcuno dell’ultra si è perso, Eva lo va a prendere. Povera, ha una faccia così stanca e bruciata dal sole che sembra abbia corso anche lei. Penso di essere fortunata ad avere amici come lei e Banana. Vedere quanto qualcuno si sappia sbattere per gli altri gratis è un grande indicatore di qualità umana. Scopro che Filippo dopo essere arrivato primo al passo Zebrù è scoppiato ed elemosinava Eva per un gel e aveva chiesto a turisti al rifugio di farsi riportare giù in macchina poi Paco l’ha preso e l’ha costretto a correre fino in fondo. Giulio ha perso la chiave del furgone e non sa come tornare a casa. Arriva Andrea, il vincitore dell’80km, fresco come se ne avesse corsi dieci. I tre moschettieri sono anche loro arrivati stremati al passo e si sono fermati al rifugio per mangiare qualcosa. Mi salutano e mi fanno i complimenti, dicono che mi hanno vista dal rifugio correre via. Paco ha continuato a sbagliare strada. Davide era con Maria Carla ed era così tranquillo che si è fermato a fare le foto ai turisti. Vengo dalla scuola inglese dove chi corre bene una gara non è necessariamente il più veloce, ma chi si sa orientare meglio. Come ho imparato da questa nuova e incerta normalità di vita pandemica, non ho superato nessuno e ho lasciato che le cose si aggiustassero da sole e facessero il loro corso. Sono arrivata terza e ho portato a casa uno dei taglieri di Luigi per essere stata la prima donna.

Seduta su quel prato mi ritrovo a condividere una giornata speciale con volti nuovi, che come me amano questa strana attività di correre su lunghe distanze mentre la maggior parte dell’umanità si è dimenticata come si fa. Quando l’uomo non era quello che è oggi, lo facevamo tutti. Dovevamo farlo per mangiare e per sopravvivere.

Mi sono ricordata di quando Hector era tornato da un mese di spedizione in Denali. Per tutta la settimana dopo il rientro, si era comportato in modo strano, come se gli servisse gradualmente tempo per riabituarsi alla normalità con quello che aveva intorno, persone e ambiente, dopo essere stato per giorni e giorni in uno stato brado di sopravvivenza, fatica, su un ghiacciaio a meno quaranta. Lo rispettavo, ma non riuscivo a capirlo fino in fondo, perché non l’avevo mai provato sulla pelle.

Ora, forse, so cosa significa.

BOA Fit System: una nuova prospettiva per le scarpe da trail.

Se correte da qualche anno, non potete fare a meno di accorgervi che il mondo della scarpa tecnica ha conosciuto diverse fasi, periodi, novità, e che fondamentalmente una scarpa di oggi è radicalmente diversa da una di quindici anni fa.

Le prime scarpe da trail, diciamocelo, erano una sorta di scarponcino da montagna alleggerito. La riscoperta minimalista ha contribuito sicuramente ad alleggerire le scarpe, a far perdere un po’di quella rigidità torsionale che rendeva alcune scarpe dei ferri da stiro, ha ridotto sensibilmente i drop delle scarpe e dato una nuova prospettiva. Le suole stesse sono cambiate grazie alla ricerca delle aziende e soprattutto di fornitori come Vibram: ora altri marchi legati alla gomma come Michelin o Continental si cimentano nel settore. Le cosiddette massimaliste hanno portato EVA in quantità copiosa senza sacrificare la leggerezza e l’ultima frontiera sembra sia quella delle intersuole in PEBAX o carbonio. Una sola cosa è cambiata poco o niente: il sistema con cui allacciamo le nostre scarpe. Ed è qui che cerca di inserirsi BOA, portando innovazione in uno spazio forse poco considerato, ma essenziale.

Il fondatore di BOA Fit System Gary Hammerslag

BOA nasce dallo snowboard, perché il fondatore Gary Hammerslag era stufo di dover sempre allacciare e slacciare gli scarponi con le mani gelate e soprattutto senza poter modulare in maniera corretta la pressione sul piede. Gary veniva già dal mondo dell’engineering, aveva appena venduto la sua azienda in campo medicale e contava solo di godersi per un po’la vita facendo snowboard sulle Rockies. Invece si è ritrovato a far partire un’azienda che oggi opera in tutto il mondo con uffici in USA, Giappone, Hong Kong, Cina, Corea ed Europa. Come mi hanno spiegato Lisa Bleierer, marketing coordinator, e Michael Kabicher, account manager (e trailer di altissima qualità visto che è stato anche campione austriaco), l’azienda vuole essere vicina ai mercati dove opera, per creare la migliore partnership possibile con le aziende che danno loro fiducia, e soprattutto interpretare al meglio le necessità dell’utente finale.

Dopo avermi portato in giro per i sentieri del Mondsee, dopo essersi fatto trovare sulla cima Coppi della Mozart 100 munito di campanaccio, e dopo innumerevoli caffè ad ISPO, ho deciso di interrogare un po’ Michi sulle particolarità di BOA e come funziona nello specifico delle scarpe da trail.

Dammi tre ragioni per scegliere BOA sulle nostre prossime scarpe.

Velocità, semplicità, precisione, se vogliamo riassumere in una frase. Perché puoi sempre avere il fit più preciso possibile quando sei sulla starting line ed aggiustarlo in un secondo prima di una lunga discesa. E non doversi mai preoccupare di avere le scarpe slacciate.

BOA Performance Fit Lab

Avete trovato resistenza nel mercato del trail? A volte sembra che sia molto tradizionalista e non così aperto come altri come il triathlon.

Si, a volte dobbiamo superare una certa resistenza e far mettere le scarpe ed il sistema nei piedi del consumatore per fargli capire i pregi. Ma quando lo provano, la risposta è immediata. Nei nostri settori classici come snowboard (in cui operiamo da quasi vent’anni), ciclismo o workwear, dove anche il fattore sicurezza è essenziale, la nostra presenza è un dato di fatto. Nel trail running siamo in crescita.

Quali sono stati gli sviluppi più importanti del BOA Fit System negli ultimi anni?

Negli anni ci siamo evoluti da un sistema di chiusura, in un sistema di performance fit, ed oggi possiamo connetter il piede alla scarpa in maniera molto più funzionale ed efficiente di qualsiasi laccio o altro sistema. Per quanto riguarda l’hardware (cavi, guide e rocchetto) siamo alla sesta edizione della piattaforma L, quella dedicata alle scarpe da corsa, il focus si sposta più su come possiamo connetterci in maniera ancora più funzionale con la tomaia. Nella base del Colorado abbiamo istituito un vero e proprio Performance Fit Lab dove queste configurazioni vengono testate e valutate dal punto di vista biomeccanico, tanto che i primi risultati sono in revisione ed in attesa di essere pubblicati su alcune riviste scientifiche.

Si testano i componenti a Mondsee…
…e si studiano nuove soluzioni.

Il sistema funziona meglio con alcuni tipi di scarpa?

Ottimo punto. L’idea da cui partiamo è che il tradizionale sistema con linguetta sia oggi datato, mentre una costruzione sock-fit o knitted combinata con overlap in materiali tecnici permetta al sistema BOA di lavorare al meglio. A parte questo, cerchiamo di lavorare con configurazioni diverse per il tipo di utilizzo: dal VK delle La Sportiva VK alle distanze corte come le Saucony Switchback fino a scarpe per terreni molto tecnici come le Adidas Agravic o per ultra come le NB Hierro. Ma quello che accomuna queste scarpe è questa concezione nuova a wraps e panels e l’utilizzo di rocchetti differenti a seconda dello scopo.

Quando sono stato da BOA, mi hai portato a fare qualche giro niente male… la zona del Mondsee è fantastica. Per chi passasse in zona: qual’è il terreno migliore per provare le scarpe BOA?

Abbiamo qualche giro notevole vicino agli uffici: lo Schafberg loop o la traversata del Drachenwald sono entrambi notevoli, c’è davvero di tutto, dalle creste tecniche a salite dure e bosco scorrevole. E’anche la zona di Mozart 100… felice di mostrarvi qualche sentiero se passate di qui.

Mondsee, dicevamo…

In questi mesi abbiamo messo alla prova BOA system su scarpe e tipologia di utilizzo varie. Sentiamo cosa dice lo staff DU.

ICEBUG New Run

Se in genere l’arrivo della primavera significa potersi allenare fino alle ultime luci del giorno con temperature miti, a quota 1750 vuol dire che si può iniziare a correre, ma sulla neve. Quest’anno la pista da fondo ha chiuso prima del previsto, diventando così un posto perfetto per iniziare gli allenamenti della stagione. Ma per correre sulla neve ci vuole la scarpa adatta. Ho provato le ICEBUG New Run, con chiusura in BOA Fit System, testandole per diversi mesi fino al completo scioglimento della neve. Le scarpe sono leggere e confortevoli, e i piedi anche dopo svariati chilometri nella neve bagnata primaverile restano asciutti, grazie alla membrana GORE-TEX di cui sono dotate. Non avevo mai provato la chiusura BOA in una scarpa da running, ma devo dire che ne sono rimasta decisamente entusiasta. In primo luogo trovo sia una modalità di chiusura agevole e veloce (le persone pigre come me apprezzano decisamente il poter infilare la scarpa e chiuderla in qualche secondo), e inoltre permette una regolazione precisa della scarpa sul piede. Durante la corsa la scarpa non si allenta nè si slaccia, permettendo così di dover pensare esclusivamente a fare fatica, senza doversi preoccupare di controllarsi mai i piedi. Sarei curiosa di provare questo sistema su altre scarpe da corsa. (Eva Toschi)

ADIDAS Terrex Agravic e Terrex Two

Sono due scarpe dal concetto molto differente: la Two ha volumi abbondanti ed intersuola ammortizzata, mentre la Agravic è tirata in tutto. Ma anche nella tomaia, e nel sistema di chiusura si nota la differenza. Io ho trovato comodissima la linguetta spessa della Two: non disturba la precisione del sistema BOA e da sollievo quando si tengono le scarpe per molte ore. Solitamente dopo cinque/dieci minuti quando la tensione del cavo si è uniformata do una regolata alla chiusura al volo alzando il piede senza neanche dovermi chinare e poi non la tocco più a meno di avere delle discese lunghe e tecniche dove mi piace sempre chiudere un po’di più per sentire la scarpa reattiva. Le Agravic invece sono molto più immediate e reattive ed anche il modo con cui lavora il sistema BOA è diverso. Gli spazi sono compatti e grazie all’overlap di TPU è facile trovare subito il punto giusto di compressione e tenerlo per tutta l’uscita. Nonostante questa sicurezza data dalla chiusura stabile, il piede rimane molto libero. Anche nei lunghi, con fango e polvere, il sistema ha sempre funzionato alla perfezione. Poi diciamocelo anche l’occhio vuole la sua parte, quando sono “chic e clean” le scarpe col boa! (Maria Carla Ferrero)

LA SPORTIVA VK

Qui siamo in una scarpa estrema in tutto, nella leggerezza, nei volumi, nella calzata. Non mi sarei aspettata su una scarpa così morbida comodità e precisione, invece anche qui il sistema BOA funziona bene, con il cavetto morbido che non si sente quasi sul dorso del piede ma permette di avere la scarpa ben stabile addosso senza perderla sul posteriore. L’unico problema con questa fuoriserie sono io che non so render loro giustizia come meritano. (Maria Carla Ferrero)

Riuscirà BOA Fit System ad affermarsi nel mondo trail? Se anche un tradizionalista come me ne è rimasto colpito, segno che dietro alla tecnologia c’è qualcosa di funzionale. Sicuramente lo sviluppo di scarpe “dedicate” permetterà di sfruttare ancora meglio le caratteristiche del sistema: la palla passa quindi ai disegnatori…

BOOKWORM aka le librerie dello Staff DU: FINDING ULTRA di Rich Roll

Personaggio ancora poco conosciuto in Europa, Rich Roll è negli States una vera e propria personalità. Il suo podcast è seguitissimo ed ha intervistato nel tempo ospiti diversissimi: atleti della corsa come Rickey Gates, Amelia Boone, Gwen Jorgensen o Kilian Jornet, atleti di sport vari come Lindsay Vonn, ma anche attori come Edward Norton o personalità varie (come John Joseph dei Cro-Mags, scusate la lacrimuccia).

Il libro FINDING ULTRA è un po’la narrazione del suo percorso e della sua trasformazione, da nuotatore ai tempi dell’università (in NCAA Division 1 e nientemeno che a Stanford) fino ad una discesa nel mondo dell’alcool da cui Rich riuscirà ad uscire grazie ad un processo di rinascita spirituale e fisica che lo porterà al termine di ULTRAMAN ed altre prove di Triathlon o corsa estreme come Badwater. Centrale nella narrazione, il cambiamento avvenuto grazie al passaggio ad una dieta plant based e come sia stato anche un viaggio introspettivo alla ricerca di un significato diverso nella quotidianità.

Ben scritto e tutto sommato scorrevole, specie nella parte iniziale, diventa forse un po’didascalico nella narrazione delle sue imprese, ma è sempre molto equilibrato. La parte sull’alimentazione è ben scritta senza diventare “pesante” o incline al proselitismo, così come quella più spirituale sulla purificazione: è una narrazione asciutta ed il libro è ben tradotto, cosa non facile quando si ha a che fare con ambienti così specifici. Molto interessante l’appendice piena di risorse e i dati scientifici sono contestualizzati e correttamente annotati.

Insomma, nonostante una mia certa reticenza verso i libri motivazionali di redenzione, l’ho letto volentieri e ho trovato spunti interessanti. Certo, un po’difficile da contestualizzare certe situazioni sociali nella nostra realtà, ma come detto, è piacevole e permette di capire meglio il personaggio.

Coach D

Roll Rich, Finding Ultra, 2020, Piano B edizioni, € 16,00

Rich Roll Website
Piano B edizioni

Non c’entra niente, ma il Coach ci teneva a farvi sapere che anche lui ha calcato il sacro suolo di Stanford. I feel you, Rich.