In occasione dell’UTMB, Alessandro Locatelli di BUCKLED ci regala episodio dedicato, e questa volta in studio ha nientemeno che Sara Lando.
Ora, se dicessi che è una fotografa sensazionale la chiuderei in fretta, ma non è in questa veste che la troviamo dietro al microfono. Questa volta mette a servizio il suo occhio sensibile, la sua sagacia, e la sua notevole capacità narrativa, per cercare di spiegare cosa significa vivere un UTMB da fuori.
Ne esce un oretta che fila via liscia: sono sicuro che strapperà qualche risata, e anche che tanti di noi trailer si sentiranno scavati nell’intimo. Proprio come nelle sue foto.
Ah, ho forse dimenticato di dire che Sara è la moglie di Alessandro, e che ovviamente parla della sua esperienza al seguito dello stesso? Beh, ora lo sapete e non potete far altro che rilassarvi e schiacciare play.
Se negli anni passati la TDS era considerata una gara super-tecnica, bella e dura adesso che al percorso sono stati aggiunti 23 chilometri e 1800 m di dislivello che dire? Beh a questo punto la potevate far diventare una 100 miglia!
Scherzi a parte, la TDS (sur les Traces des Ducs de Savoie) è senza dubbio la gara più tecnica del circuito e adesso dalla categoria dura passa a durissima con un terreno tutto da scoprire nella regione del Beaufortain. Con partenza sempre da Courmayeur (quest’anno alle 4) e arrivo a Chamonix il percorso dell’undicesima edizione sarà più lungo ma più adattabile in caso di condizioni climatiche difficli. Per quanto riguarda i “paesaggi”, chi corre la TDS si becca il Pas d’Outray con tanto di vista sulle iconiche Pierra Menta e Grand Mont, ed ovviamente il Bianco.
La TDS sarà una gara veramente da seguire visti i cambiamenti e i tempi tutti da ristabilire. Ma su quest’argomento lasciamo la parola all’esperto.
TDS – dettagli tecnici
Distanza 145 km
Dislivello 9100 mt +
Cutoff 42 h
Partenza Courmayeur 28/08/2019 04:00
Punti ITRA 6
La parola agli atleti DU
Luca Ambrosini
Cosa ti aspetti dalla gara?
Mi aspetto panorami assurdi, già avendo fatto la CCC so cosa mi aspetta da quel punto di vista. Delle gare del circuito UTMB sarà sicuramente la più tosta, cruda, tecnica: già quando era 120 km dicevano che era la sorellina cattiva, ora chissà di quanto l’hanno incattivita. Se hanno previsto che il vincitore ci impiegherà 19 ore, io mi sono messo l’anima in pace e non guardo a tempo, ritmo: cerco di godermi il viaggio. Sarà la sfida più grossa che abbia mai affrontato, ero arrivato ai 120 km e 22 ore della SUSR del 2016, che nel 2017 ho replicato e le ore erano scese a 20:06.
Posso solo dire che a me queste “cancarate” lunghe mi ispirano tanto, ritmi non esagerati ma su terreno supertecnico, fisicamente forse nessuno è pronto per affrontare questo tipo di gare, secondo me è la testa che ti manda avanti: quando vedi che per 10 km impieghi 3 ore, allora viene fuori chi ha testa. Sarà anche la prima gara dove avrò un assistenza speciale, la mia dolce metà mi seguirà per tutto il viaggio, sono molto felice per questo, poi so già che ci sarà anche tutta la DU family, non vedo l’ora di prendermi parole dal coach quando vede che in salita cammino…
Quale sarà secondo te il punto cruciale del percorso?
I punti cruciali della gara daranno sicuramente Bourg Saint-Maurice -km 51- e Beaufort –km 91-: si scende in valle e poi bisogna “svalicare” praticamente 2 montagne, con un D+ filato mostruoso. Qualche difficoltà si incontrerà anche a Les Contamines, la stanchezza sarà tanta, e ci aspetta ancora una bella salita.
Da non sottovalutare le parti tecniche della gara, la concentrazione deve essere sempre massima. Poi diciamocelo chiaro, un viaggio cosi lungo ha talmente tante variabili che a noi non resta che prendere tutto così come viene.
Per me sarà un test nel cercare di allungare un pelino le mie solite distanze, sognando qualche 100 miglia isolana o americana su terreno non amichevole.
Alessio Albanese
Cosa ti aspetti dalla gara?
Settimana UTMB? Per me tutto è nato con questa “manifestazione”: mi sono avvicinato a passi di bimbo, per approdarci l’anno scorso, 2018, come responsabile UGLOW ITALIA e vivere i più bei giorni dal punto di vista sportivo grazie alla vittoria della nostra atleta Francesca Canepa.
Quest’anno, problemini permettendo, parteciperò alla TDS … 145km x 9100 …
Penso e ripenso molto a chi te lo fa fare? Te l’ha consigliato il medico? Nessuno ti paga, anzi…
Il mio Coach, pazzo a decidere di seguirmi, dice che la posso portare a casa tranquillamente. In effetti mi ha portato lui a questo livello personale, quindi ascoltiamolo. Pensiamo e soprattutto godiamoci ogni singolo centimetro, panorama, sensazione nelle nostre gare perché in quei momenti siamo soli con noi stessi con i nostri pensieri. Ma ci sono persone che ci amano, che ci vogliono bene, che ci seguono, che aspettano al traguardo o sono a casa a seguire con il LIVE.
GODETEVI IL MOMENTO: io personalmente affronterò il mio mostro. E lo voglio battere lo stronzo sta volta.
Quale sarà secondo te il punto cruciale del percorso?
Sono veramente tanti 145km. Ne ho già corsi 120 nel 2018 ma sono i 9100 metri che mi mettono paura: è una gara nervosa, non molla mai, su su su e giù giù giù. Non c’è un pezzo in particolare che mi preoccupa: sono tutti i 145 km, ogni singolo km…
Abbiamo chiesto ai nostri valorosi allenatori di tirare fuori i nomi giusti di chi starà davanti. Post UTMB, sarete liberi di deriderli.
Coach Paco:
Ma quanto forte va la Pretto? Tanto. E non è fantascienza vederla sul podio, anche sul gradino più alto. Quindi voto Francesca Pretto. La gara è molto dura e adatta alle sue caratteristiche. Inoltre, val la pena ricordarlo, ha vinto per due volte di fila URMA 50k Invitational. Poi Audrey Tanguy, campionessa in carica, fortissima. La ragazza del Team Hoka è una che sbaglia poche gare, e parte da favorita. E terza metto Meredith Edwards anche se sembra che dopo essersi messa con Jason Schlarb si sia un po’ rammollita. E’ comunque un cavallo di razza. Patisce il freddo e se qualcosa va un po’ fuori dalle sue previsioni fa fatica a tenere assieme i pezzi, ma è comunque una che può fare bene.
Uomini: Ludo Pommeret. Ha una biomeccanica di corsa da dimenticare, soprattutto quando lo vedi correre dal vivo, eppure è il più forte in griglia partenti. Vincerà? Probabile. Un’altra vecchia conoscenza del giro di gare dell’UTMB, Tofol Castanyer, è uno veloce, ma anche bravo sul tecnico e con condizioni difficili. Può stare sul podio comodamente. Chiudo con Ryan Sandes, che ogni volta che ho pronosticato che sarebbe andato male ha fatto bene, una volta ha pure vinto Western States. Quindi a sto giro lo metto sul podio e vediamo che succede.
Coach Davide:
Kathrin Gotz sembra il nome da giocarsi, anche più della Tanguy in virtù della stagione allucinante che sta avendo. Ho solo paura che abbia caricato un po’troppo in questi mesi, non è sempre facile ed immediato smaltire certi carichi, specialmente in gara. E sono curioso di vedere come Hillary Allen se la caverà con la distanza. Perché per il resto ha tutto per fare davvero gara: velocità di base, brava in salita come in discesa, amante del terreno tecnico. Si è ripresa alla grande dalla terrificante caduta di Tromso e secondo me vuole lasciare la zampata, anche se dopo Cortina non ha brillato. Mi odieranno entrambe, ma sul podio io ci vedo bene due ragazze italiane: Francesca Pretto è in forma strepitosa, non ha paura di niente e ha Tommaso Bassa a farle assistenza (se Riccardo Tortini è il pacer che tutti vorremmo, Tommaso Bassa è la crew che tutti vorremmo… specie con gli occhiali di Robocop) e Sonia Glarey, che qui a Chamonix il podio l’ha già conosciuto. Ed era il gradino più alto. Il mio cuore batte per loro, inutile nasconderlo.
Vuoi vedere che vince davvero Pommeret? Secondo me si, sarebbe un segnale di speranza per tutti noi ultraquarantenni. Quindi si tifa Ludo. Poi vado esotico con Yanqiao Yun e completo con Aurelien Dunand-Pallaz, che si meriterebbe una gara strepitosa in patria. Ma c’è una cricca di spagnoli assatanati (ed esperti) che non starà a vedere.
L’avevamo promesso (o minacciato) ed eccoci qui, pronti ad entrare gradualmente nella UTMB madness. Ma alle 100 miglia – soprattutto quella del Bianco – non ci si arriva partendo da zero ma godendosi tutto il sapore che hanno i chilometraggi che vengono prima.
Per questo, non ci resta che partire dalla OCC (Orsières – Champex – Chamonix), la gara di media distanza (sono considerate Trail Ultra Medium le gare tra i 42 e i 69 km) che quest’anno vede la sua quinta edizione.
La gara, che esplora il Vallese, parte da Orsières, (sud-ovest del Canton Vallese, nella valle Val d’Entremont) passa sotto il versante orientale del Monte Bianco per arrivare prima a Champex-Lac e poi proseguire sul percorso di UTMB e CCC fino al centro di Chamonix.
Passiamo ai numeri che, per quanto sarebbe bello pensare al trail solo come uno splendido viaggio sui sentieri, vanno tenuti da conto.
OCC – dettagli tecnici
Distanza 55 km
Dislivello 3500 mt +
Cutoff 14 h 30
Partenza Orsières centro 29/08/2019 08:15
Punti ITRA 3
La parola agli atleti DU
Matilde Giovannoni
Cosa ti aspetti dalla gara?
Spero e sono sicura di trovare paesaggi super, di guardarmi intorno tanto e conoscere nuove persone. Spero di non trovarmi in una gara di invasati-imbruttiti stile milanese
Punto a godermela e a finire in un tempo decente…. che non so quale sia….
Quale sarà secondo te il punto cruciale del percorso?
Punto cruciale critico credo arrivare a Trient e La Flegere. Anche se personalmente mi spaventano quasi più le fasi di corsa in piano che la salita (so che me ne pentirò quel giorno). Quindi forse cruciale il primo pezzo per non rimanere troppo indietro…
Abbiamo chiesto ai nostri valorosi allenatori di tirare fuori i nomi giusti di chi starà davanti. Post UTMB, sarete liberi di deriderli.
Coach Paco:
Tra le donne, al primo posto ci piazzo la vincitrice di Speedgoat 50k in carica, Anna Mae Flynn. Seconda metto Ruth Croft che è una che va forte e ha scelto di stabilizzarsi su distanze più corte e gare tirate, parte da favorita, e a buona ragione. Terza metto Dominika Stelmach, una polacca che parte di sicuro da outsider. Si è vista poco e tutto il resto, ma vedrete che potrebbe fare bene. Podio azzardato, ma vediamo come va.
Tra gli uomini invece spazio a Pat Reagan, uno che sa correre, forte, più forte di tutti forse. Il suo problema è la salita, ma OCC non è tutto sommato una gara incorribile. Col caldo e con qualche errore davanti, potrebbe saltare fuori in discesa correndo comodamente sotto ai 4 al km. Poi Chris Mocko se non salta per aria provando a seguire qualcuno che ha più gambe di lui. Voglio proprio vedere cosa combina. E poi Francesco Trenti: occhi puntati sul trentino, che è uno che si allena tanto. Fermato a Cortina da una slogatura, ma l’ho visto coi miei occhi più tirato che mai. Forza Franz!
Coach Davide:
Ruth Croft parte con tutti i favori, e a ragione. A Chamonix non ha mai sgarrato, qualsiasi distanza abbia fatto. L’unica che quest’anno potrebbe impensierirla, secondo me, è Sheila Aviles, nel circuito sky sta mettendo in riga tutti e non è cosa da poco contando il livello. Mi piace l’idea che Anna Mae Flynn porti un po’ di stelle e strisce sul podio…
Uomini: difficile su una distanza così. Dico Nico Martin perché mi piace l’idea di un francese sul podio. Ma Ruy Ueda è nella stessa identica posizione della Aviles: grandissima annata nel circuito sky, e a Chamonix lui ha già fatto gran bene. Sarà entusiasmante. E terzo mettiamo Thibo Baronian, andiamo sul local: se lo meriterebbe.
L’UTMB costa. Offre un servizio fantastico, ma va detto, influisce sul bilancio di qualsiasi runner. Un po’ l’iscrizione, un po’il viaggio, un po’(tanto) trovare da dormire e mangiare a Chamonix. Ma la voce che più causerà discussioni con mariti, mogli, compagni, genitori, figli e commercialista, è il MATERIALE.
Anche cercando di non farsi tentare dalle sirene dell’Expo, per partire ed essere in regola con quanto richiesto dall’organizzazione (non pensate neanche a bypassare, che oltre ad essere triste è illegale: sapevate a cosa andavate incontro quando vi siete iscritti), serve una dotazione corposa.
Jim, hai dimenticato a casa qualcosa?
Con l’idea di ripassarla, e dare qualche esempio di come spendere bene il proprio budget, abbiamo chiesto a Maria Carla di darci qualche dritta su come districarci tra materiali e costruzioni. In fondo sarebbe anche il suo lavoro quando non è precettata dai camp.
Il materiale richiesto è il seguente:
Kit di base
Zaino di gara per trasportare il materiale obbligatorio
Telefono cellulare (uno smartphone è consigliato): il corridore deve essere raggiungibile in qualsiasi momento prima, durante e dopo la gara: – Opzione internazionale che ne consenta l’utilizzo nei tre paesi (inserire nella propria rubrica il numero di sicurezza dell’organizzazione, non nascondere il proprio numero e non dimenticarsi di partire con la batteria carica) – Tenere il telefono acceso, la modalità aereo è proibita e potrebbe provocare delle penalizzazioni. – Per smartphone: applicazione LiveRun installata e configurata. – -Si raccomanda vivamente una batteria esterna.
Bicchiere di 15 cl minimo (non sono autorizzati borracce o fiaschette con tappo)
Riserva d’acqua di almeno 1 litro
2 lampade frontali funzionanti con pile di ricambio per ogni lampada Raccomandazione: 200 lumen o più per la frontale principale
Telo di sopravvivenza di minimo 1,40 m x 2 m
Fischietto
Benda elastica adesiva per fasciature (minimo 100 cm x 6 cm)
Riserva alimentare Raccomandazione: 800 kcal (2 gel + 2 barrette energetiche di 65 g ognuna)
Giacca a vento impermeabile* e traspirante** (tipo Outdry) con cappuccio, adatta al brutto tempo in montagna *minimo 10 000 Schmerber. **RET inferiore a 13. – la giacca deve avere obbligatoriamente un cappuccio integrato – le cuciture devono essere stagne. – la giacca non deve avere parti con tessuto permeabile; sono accettate le parti per fare entrare aria (sotto le ascelle, sulla schiena), solo se non impediscono in modo evidente l’impermeabilità. Il concorrente giudica, secondo i suoi criteri, se la sua giacca è conforme al regolamento e dunque adatta al brutto tempo in montagna; ad ogni modo, in caso di controlli, solo gli addetti ed i Commissari di gara decideranno.
Pantaloni lunghi o collant e calzettoni che coprano tutta la gamba
Cappellino, bandana o Buff®
Secondo strato caldo: maglia a maniche lunghe (no cotone) di minimo 180g (uomo, taglia M) O maglia calda a maniche lunghe (primo o secondo strato, cotone escluso) di minimo 110g (uomo, taglia M) e di una giacca windstopper* con protezione idrorepellente duratura (DWR protection) *la giacca windstopper non sostituisce la giacca a vento impermeabile con cappuccio e vice versa
Cappello
Guanti caldi ed impermeabili
Pantavento impermeabili
Documento d’identità
Negli ultimi anni sono stati aggiunti i leggendari kit canicola e invernale che l’organizzazione può rendere obbligatori anche all’ultimo minuto. Rispettivamente:
Kit canicola
Occhiali da sole
Cappellino con paraorecchie che copra anche la nuca
Crema solare Raccomandazione: livello minimo di protezione 50 (SPF)
Riserva d’acqua di almeno 2 litri
Kit invernale
Occhiali protettivi
3° strato caldo (da indossare tra il 2° strato e la giacca impermeabile)
Raccomandazione: pile o piumino comprimibile
Scarpe da trail robuste e chiuse (NO scarpe minimaliste o super leggere)
Ma ora, parola all’esperta.
“La scelta di un equipaggiamento idoneo è uno dei fattori chiave del successo della gara. L’ultra-endurance necessita una preparazione minuziosa, attrezzatura da gara compresa”
Incipit della pagina dedicata al materiale obbligatorio sul sito ufficiale UTMB: come dargli torto? E allora ci siamo permessi di prendere in esame e consigliarvi alcuni capi d’abbigliamento.
Partiamo dallo zaino, visto che deve contenere tutto il resto. Le opzioni sono tante, ma in sostanza dipende da un fattore essenziale: avrete assistenza? Si può pensare ad uno zaino più snello. Ve la fate soli contando solo su sacca a metà strada? Allora serve un po’ più di spazio per essere sicuri. Per finiture e cura dei particolari, ci sono piaciute le nuove proposte Camelbak: l’ULTRA PRO VEST è la scelta per chi potrà contare sul supporto di amici e familiari, l’ULTRA 10 VEST è per tutti gli altri.
ULTRA PRO VEST fronte…
…e retro
Entrambi sono stati progettati per soddisfare le esigenze di una gara come UTMB. Tessuto in 3D mesh per aumentare la traspirabilità e alleggerirne il peso. Il secondo può essere utilizzato sia con riserva idrica interna che con flask grazie alle apposite tasche frontali, l’ULTRA PRO fa affidamento solo sulle flask. Possibilità di riporre i bastoncini posteriormente e tasca anteriore per telefono, si differenziano nella distribuzione delle tasche laterali e posteriori e nella capacità. Se l’ULTRA PRO con i suoi 6 litri è al limite, l’ULTRA 10 offre decisamente più capacità di carico con i suoi 10 litri. Ampie possibilità di regolazione nell’ULTRA 10 e disponibilità in tre taglie per l’ULTRA PRO.
ULTRA 10 VEST fronte…
…e retro
La giacca impermeabile è forse l’articolo chiave tra quelli in lista. Ci salverà in caso di pioggia, quindi waterproof (minimo 10 000 colonne da regolamento, se sono di più tutto di guadagnato per voi), ma attenzione anche alla traspirabilità, e quindi al tipo di membrana utilizzata, visto che tendenzialmente vi state muovendo/correndo/strisciando. Tutte le cuciture dovranno essere nastrate e le zip sempre waterproof. Non dovrà proteggerci solo dalla pioggia manche dal freddo e dal vento, quindi cappuccio ben avvolgente e regolabile e possibilmente alto sul davanti in modo da proteggere anche mento, bocca e naso. Dovrà avere un buon fitting asciutto, in modo che non ingombri, ma dovrà restare comoda nei movimenti, specie quelli delle braccia. Tirazip con cordino per facilitare l’apertura anche con guanti e mani gelate.
In DU usiamo la Montane Minimus Stretch Ultra Jacket, ci piace il design minimale, ma studiato nei particolari. Come il taglio della manica che facilita il movimento della corsa anche con i bastoni evitando che il fondo si alzi. Orlo sul fondo regolabile e cappuccio ergonomico con elastico posteriore e regolatori frontali. Tessuto 20 Denier PERTEX® SHIELD 2.5 layer waterproof . Leggero, morbido, elasticizzato e traspirante. Totalmente nastrata internamente e tutte le zip a prova d’acqua. E facilmente richiudibile in una tasca, così da non ingombrare troppo in uno zaino già strapieno. E ovviamente disponibile anche nella versione da donna.
Minimus Stretch Ultra in versione maschile…
…e quella femminile
Alla giacca va abbinato un pantalone impermeabile. Si spera sempre di non doverli utilizzare, quindi primo punto dovranno essere comprimibili al massimo, ma sempre waterproof, sempre con cuciture nastrate. Cercate una lavorazione del tessuto ripstop: eviterà lo strappo in caso di caduta o incontri ravvicinati con bastoncini, rami, rovi e varie. Zip laterali lunghe per poterseli infilare in modo rapido anche con le scarpe. Dovranno essere comodi ma non troppo larghi, in modo da non intralciare la corsa.
Montane anche nella parte sotto usa il tessuto PERTEX® Shield ™, anche sui pantaloni Minimus Pants. Vita elasticata con regolatore. Zip sul fondo con doppio velcro di regolazione per poterli stringere su polpaccio e caviglia. Comodo sacchetto in rete per poterli comprimere e riporre nello zaino. Anche qui disponibile in versione femminile.
Altro capo chiave, il secondo strato. Il suo scopo principale è quello di scaldare e mantenere la temperatura corporea, deve però asciugarsi il più in fretta possibile se sudiamo. Non essere ingombrante indosso e ancora meno quando riposto nello zaino. Vi consigliamo uno stile “semplice” senza troppi fronzoli, inserti e cuciture e zip, visto che siamo quasi a contatto con la pelle. Rischiamo solo abrasioni inutili ed in più andrebbero ad interferire con quelle della giacca. E non dimentichiamo che abbiamo anche sempre lo zaino in spalla, carico e chiuso attorno al corpo.
Negli ultimi anni si è visto un grande ritorno alle fibre naturali, ma quello che a noi ha convinto maggiormente è la combinazione tra “sacro e profano” e cioè la speciale mescola tra lana Merino e PRIMALOFT® che Montane usa sui suoi capi della linea PRIMINO come il Montane Primino Long Sleeve 140 (qui nella versione da donna).
PRIMINO 140 Crew M
PRIMINO 140 Crew W
La lana ha da sempre la straordinaria proprietà di scaldare anche da bagnata (e non puzzare), il PRIMALOFT di espellere il sudore verso l’esterno ed asciugarsi in fretta. Particolarmente sottile e piacevole al tatto, può essere usata anche direttamente sulla pelle.
Così caldo e comodo che noi usiamo anche i guanti in PRIMINO: a nostro parere l’ideale è averne un paio snello, leggero e caldo, a cui abbinare un sovraguanto da infilare e togliere rapidamente in caso di pioggia o vento freddo, come il Montane Minimus Mitt leggerissimo (45 grammi!) e supercomprimibile.
Primino 140 Gloves
Minimus Mitts
Non è nel kit obbligatorio, ma spendiamo ancora due parole per l’insieme calza + scarpa. Perché su chilometraggi di un certo tipo, può fare la differenza tra finire o no. O anche solo tra finire, sorridere e godersi la cerimonia di premiazione in piedi o finire, essere incazzato e godersi la cerimonia sdraiato a letto con dolori lancinanti.
Passiamo la palla a Coach Davide che ci racconta il suo set-up preferito.
Per me, in una gara lunga, la primissima necessità è essere comodo. E potermi dimenticare di cosa succede lì sotto.
La prima cosa che guardo di una mia scarpa da ultra è quindi la calzata prima ancora dell’ammortizzazione: rarissimamente una scarpa mi ha fatto ricredere dopo un po’di uscite, il fatto che il piede stia bene, è spesso questione di amore a prima vista. Poi vengono tutti gli altri fattori, certo. In primis proprio l’ammortizzazione, perché diciamocelo, nessuno correrà come un ottocentista tra Trient e Vallorcine: serve una scarpa che perdoni e che non chieda troppo impegno muscolare. Poi la tenuta: sogniamo tutti di fare l’UTMB asciutto, ma capita raramente. E comunque anche in quegli anni, una scarpa che sulle lunghe discese verso Les Chapieux, La Fouly o Chamonix sta dove la metti è fondamentale. Avete mai fatto la discesa delle Pyramids verso il Lac Combal? Ecco, una suola decente lì ve la godete tutta. Però la scarpa da UTMB, per me deve anche essere leggera. Eh si, 20-30-40 ore con una scarpa ai piedi, non so quanti passi (ma sono tanti)… quei 200 grammi in meno diventano tonnellate. Se vale per lo zaino, vale ancora di più per le scarpe, no?
La scarpa che sto usando in tutte le mie gare risponde egregiamente a questi quattro dogmi, ed è la SPIN ULTRA di SCARPA. Calzata comoda, linguetta non troppo spessa per riuscire a sistemare bene l’allacciatura, ma neanche così scarna da non proteggere abbastanza. Soletta interna morbida, calzata con sistema Sock-Fit LW senza punti di frizione. E abbiamo sistemato la comodità. Ammortizzazione garantita dall’intersuola in EVA con doppio inserto su tallone ed avampiede e shank centrale antitorsione. 24/18 mm, suola importante senza diventare ingombrante. E abbiamo risolto la seconda. Suola Vibram dove al classico e comprovato Megarip e disegno con tasselli da 4mm, viene accoppiata la Litebase che permette di mantenere il peso totale a 270 gr. Sistemati anche i punti tre e quattro. Ci aggiungo come bonus il puntale stampato in 3D che protegge da pietre e radici quando non si è più proprio così sobri da gestire falcate kenyane.
Come per tanti, nelle prime gare lunghe, lo stato in cui riducevo i miei piedi era qualcosa che affascinava, nella sua morbosità. Anche al mio primo UTMB, acqua e freddo mi avevano martoriato. Creme, fasciature, taping, camminate sui carboni ardenti nei mesi precedenti, non avevano cambiato nulla. Anzi. Poi sono stato negli States, e prima della Western ho visto che tanta gente usava queste calze buffe con le dita. Chiedo al mio pacer, compro ed uso in gara senza averle mai provate. Rivelazione. Da quel giorno, raramente ho corso gare lunghe senza Injinji.
Injinji Lightweight No Show
Injinji Trail MIdweight Crew
Mi hanno liberato dal mio problema principale, che erano le vesciche tra le dita, e mi hanno sempre dato risultati ottimi anche in contesti terrificanti (WS 2017 neve, fango, detriti, poi 42°, polvere ed acqua addosso e guadi tutto il giorno).
A seconda del contesto uso le Original Weight o le Light Weight: le Mid Weight sono per me troppo spesse e mi piace un po’di “feeling” per non snaturare la scarpa. Io che sono vecchio uso ancora le No Show (perdono), ma ovviamente hanno l’altezza Crew che sembra essere diventata obbligatoria, pena la squalifica dal circolo di quelli che contano. Ok arrivare. Ma arrivare con un paio di calze a metà polpaccio è tutta un’altra cosa. Se vi sembrano un po’strane, ci vuole un attimo per abituarsi: mettetele dentro una scarpa e non le sentite più.
Ah: cambiare le calze è una botta di vita, fatelo anche tre/quattro volte in una gara lunga. Cambiare le scarpe, è sempre un pericolo: se non avete un motivo più che valido e lo fate tanto per avere una scarpa nuova e fresca, spesso bastano le calze.
Ci vediamo a Chamonix, in fondo alla discesa, appena passato il ponte. Come dice il buon Fulvio, gli amici si va ad aspettarli lì.
Difficile parlare di trail facendo finta che non esista l’UTMB.
E’come svegliarsi al mattino, scendere in cucina e trovare un elefante seduto al tavolo. Potete anche far finta di parlare della giornata lavorativa o della spesa da fare, ma l’elefante resta lì.
Non esiste, non esiste, non esiste…
E allora nel mese dell’UTMB saliamo anche noi sul carrozzone. E sapete perché?
Perché a noi la settimana dell’UTMB piace. E le sue gare ancora di più.
Perché girano intorno a quel benedetto massiccio che rappresenta il passato, presente (e speriamo anche futuro) dell’alpinismo, dello sci, della corsa in natura.
Perché sa strappare un urlo al professionista sgamato, come a chi arriva dopo 46 ore.
Perché è maledettamente bene organizzato.
Perché abbiamo i nostri ricordi che tirano fuori ancora qualche sorriso.
Perché un pensiero, volente o nolente, ce lo fanno tutti ad andare a Chamonix.
E non ultimo, perché ci sono le nostre ragazze ed i nostri ragazzi che cercano di passare quello striscione.
Dovremmo restare a casa e far finta di niente? No, e allora nei prossimi giorni proviamo a portarvi in Savoia e spiegare cos’è per noi la “UTMB madness”.
Basta presentarsi sulla linea di partenza di una qualunque gara di trail su media o lunga distanza e fare un rapido conto: più o meno il 70% dei presenti utilizza dei bastoncini, e in alcune gare probabilmente ci avviciniamo al 90%. Ma cos’è questa sorta di mania da “trekking poles” che sembra aver contagiato l’intero mondo del trail? Proviamo a capirlo insieme.
Le basi
Camminare in montagna è faticoso, lo sappiamo bene. Figuriamoci correrci. I bastoncini, quando usati correttamente, possono alleviare questa fatica in maniera sostanziale. Il succo del discorso è tutto qui. C’è anche chi si è azzardato a buttare giù dei numeri, asserendo che l’utilizzo dei bastoncini riesce ad alleviare l’affaticamento delle gambe fino al 20%, tuttavia non esistono studi conclusivi a riguardo. Al di là dei numeri, è fuori discussione che camminare in salita con i bastoncini permetta di sfruttare in maniera proficua tutta quella muscolatura di braccia e spalle che, diversamente, sarebbe solo un peso che ci porteremmo inevitabilmente appresso: tanto vale provarle a dargli un senso e sfruttarlo a nostro vantaggio, no?
Paco e Carmo si godono due appoggi extra dove l’aria è sottile
Bastoncini sì, ma quali?
Da un punto di vista storico, i bastoncini arrivano innanzitutto dal mondo dello sci nordico e del trekking. I primi bastoncini in alluminio, mutuati dagli specialisti delle nevi, erano leggeri e resistenti ma poco trasportabili e si sono poi evoluti nei modelli telescopici a due o tre sezioni. Un semplice meccanismo di chiusura ad avvitamento permetteva di allungare e accorciare rapidamente il bastoncino, rendendolo adatto alla salita, alla discesa e al trasporto sullo zaino da trekking (o al suo interno). Bingo.
E per il trail? Si poteva fare di meglio e rendere il processo rapido e a prova di bomba (cosa che con la chiusura tradizionale non è sempre scontata… freddo, polvere, acqua, sporco non aiutano certo e sono condizioni comuni in gara o nelle nostre uscite).
Per noi, la vera rivoluzione l’hanno fatta i modelli “a sonda” in carbonio. Con una struttura che ricorda le sonde da ricerca dispersi in valanga ed una serie di sezioni cave che in uso vengono messe in tensione da un cordino di dyneema interno, questi bastoncini hanno segnato il vero cambio di passo per gli appassionati di trail running di tutto il mondo.
Bastoncini a sonda a misura fissa: da sx Masters Tre Cime Fix, Black Diamond Distance Carbon Z, Leki Micro RCM
Perché? Sono leggerissimi, con un volume d’ingombro minimo una volta smontati, non richiedono manutenzione e non hanno i problemi d’inceppamento tipici dei modelli telescopici. Soprattutto, sono pratici da tenere in mano una volta ripiegati e sono facili da fissare esternamente allo zaino, come vedremo tra poco. Non a caso, praticamente tutti gli atleti elite che usano i bastoncini optano per questa tipologia.
Bastoncini a sonda regolabili: da sx Masters Tre Cime Carbon, Black Diamond Distance Carbon FLZ, Leki Micro Vario Black
Ci sono poi i modelli a lunghezza fissa, molto diffusi in ambito Vertical K o Sky. Sono in assoluto i più leggeri e funzionali, salvo essere poi un po’ più scomodi da trasportare, non essendo pieghevoli.
Masters Sassolungo, un capolavoro di leggerezza e robustezza.
Discorso a parte lo fanno le impugnature: in sughero o in tessuto sintetico, corpose o minimali, con lacciolo classico o guantino a sgancio rapido in stile “nordic walking”. Quasi sempre la scelta è dettata dai vostri gusti e dal tipo di utilizzo che fate dei bastoncini.
I Leki Micro Trail Pro con la caratteristica impugnatura facilmente staccabile.
Chi scrive, per esempio, li usa esclusivamente in salita e predilige i modelli con impugnatura nordic perché sono particolarmente pratici da sganciare nei tratti pianeggianti e in discesa.
L’autore dell’articolo “on the run”
L’enorme differenza nella scelta dei bastoncini la fa lo zaino che utilizzeremo, perché sarà quello a determinare se e come potremo riporli quando non ci serviranno. La condotta in questo caso è fondamentale: in gara diventiamo tutti pigri, lo siamo addirittura con l’alimentazione (quel gel che dovrei tanto prendere è laggiù, lontano, nella tasca… come farò mai a raggiungerlo?) figuriamoci con i bastoncini. C’è chi li trasporta tutto il tempo in mano, direttamente montati, senza accusare il colpo. Tuttavia, vi posso assicurare che non c’è niente di meglio di avere le mani libere durante la discesa che segue una lunga salita. Oggi, quasi tutti le aziende hanno adeguato l’offerta dei loro zaini ed è sempre più facile trovare soluzioni ingegnose per il trasporto dei bastoncini
Qualche esempio? Abbiamo Ultimate Direction, che nella sua quarta versione della sua Signature Series ha messo a segno un colpo eccellente con un sistema di trasporto semplice, pratico e intuitivo, che funziona bene soprattutto con i modelli a sonda compatti e leggeri.
Salomon ha introdotto da poco una faretra modulare disegnata appositamente per la linea S/Lab Sense Ultra Set, molto pratica nell’utilizzo sul campo e intelligente perché rimuovibile all’occorrenza. C’è poi il sistema storico di trasporto bastoncini della casa di Annecy, presente sui modelli ADV Skin, estremamente versatile (è uno dei pochi che funziona bene anche con i modelli telescopici) ma un po’ più laborioso da utilizzare.
Infine, abbiamo lo Skin Pro 10 Set che combina addirittura tre modalità di trasporto: internamente allo zaino, esternamente in modo trasversale oppure sfruttando il cordino elastico incrociato presente sul fondo. Ingegnoso e molto efficace.
Per gli amanti degli zaini più strutturati, di concezione un po’ più classica, Raidlight propone dei modelli molto validi sui quali fissare i bastoncini è semplicissimo. Su tutta la linea Ultra Legend troviamo sia il fissaggio classico posteriore, sia un sistema frontale di nuova concezione ad aggancio rapido:
Non solo zaini.
È passato un po’ di tempo da quando si vide Luis Alberto Hernando vincere gare in tutto il mondo con i suoi fedeli bastoncini fissati in vita tramite una cintura elastica. Da allora, l’offerta di fasce ventrali elasticizzate che permettono di trasportare i bastoncini (prevalentemente i modelli a sonda) è aumentata esponenzialmente. Si tratta di cinture realizzate in materiale elastico, che arrivano fino ai 5 litri di capienza, con cui sostituire lo zaino per trasportare il materiale indispensabile per le vostre uscite. I modelli presenti sul mercato sono parecchi e tutti molto interessanti. Si passa da Archmax a Compressport, da Salomon a Naked passando per Nathan e Ultimate Direction. Il trasporto dei bastoncini in vita offre notevoli vantaggi, lasciando libero il tronco e le spalle. Se vi piace la corsa shirtless e minimale, e non avete bisogno di trasportare troppo materiale, tenetele presente.
A sx la fascia Compressport in versione UTMB, a dx l’originale Archmax
Sì, ma il gesto?
I puristi della corsa s’indignano, di fronte a D’Haene che stravince l’UTMB correndo con i bastoncini e mettendosi dietro persino Re Kilian. “Non si corre con i bastoncini!”, “Ma non è neanche capace ad usarli!”. Il puro gesto della corsa viene indubbiamente compromesso dall’utilizzo di quei due pali rigidi che non si sa mai bene come abbinare al passo spedito di un runner efficiente, tuttavia la prova sul campo non lascia adito a dubbi: i bastoncini aiutano tutti, persino i top! E se oltreoceano i detrattori della corsa con zainetto e bastoncini rimangono la maggioranza, in gare particolarmente “montagnard” e con molto dislivello come Hard Rock 100 si cominciano ad intravedere persino in mano ai nomi che contano. Insomma, tocca farsene una ragione: se persino il Coach ha fatto l’UTMB con un paio di vetusti Camp Xenon 4 in mano, va davvero a finire che i bastoncini servono ad andare più veloce!
COACH SAYS
Bastoncini? Discorso complicato.
Che possano rappresentare un aiuto valido nelle ultra “montane”, è fuori discussione, ma è davvero tutto così semplice? No, e andiamo a vedere perché.
Qual’è materialmente il vantaggio di utilizzare i bastoncini?
Innanzitutto, scarichiamo dalle articolazioni delle gambe un po’di peso, ma il discorso vale anche per i muscoli del CORE, in quanto la stabilità data dai quattro punti di appoggio ci permette di dover chiudere meno per restare bilanciati
Salviamo la schiena restando più dritti, e nel fare questo aiutiamo anche la respirazione aprendo bene la zona del diaframma e soprattutto ventrale.
E, cosa da non sottovalutare, ci aiutano spesso a trovare continuità e ritmo sulle salite più continue evitando continui fuori giri.
Vediamo invece i punti negativi.
Oltre ad un certo ingombro (anche se, come visto, al giorno d’oggi è un problema superato dalle nuove soluzioni di trasporto), c’è la tendenza ad “addormentare” un po’i runner, che spesso cedono alla camminata anche quando potrebbero comunque sfruttare una corsa poco dispendiosa. E qui arriviamo al nocciolo della questione.
Vero, i bastoncini aiutano, ma non dimentichiamo che l’utilizzo degli arti superiori alza anche i battiti e di conseguenza il dispendio energetico che potrebbe in certe situazioni portarci fuori soglia.
Quindi quando vale la pena usare i bastoncini e quando no?
Innanzitutto, bisogna avere un minimo di padronanza della tecnica, altrimenti davvero si “spende” molto per guadagnare poco e spesso intralciarsi da soli. Ergo, no “domani li prendo senza averli mai usati perché ce li hanno tutti”. Poi valutiamo il percorso: dislivello importante, salite lunghe e continue, chilometraggio pesante, via coi bastoncini. Gare corribili, salite nervose o tanti saliscendi, valutare bene, anche con chilometraggi ultra. A proposito: si usano in discesa? Io sostengo di no, perché ok che aiutano le articolazioni, ma si rischia spesso la caduta e le continue frenate significano per i nostri quadricipiti un aumento delle contrazioni eccentrico/concentriche ed un sacco di scorie. Quindi, a meno di non essere su terreno davvero tecnico e con le ginocchia scoppiate, io eviterei.
Il Tenente Mirel si gode le Piccole Dolomiti
Ok, vi ho convinto che servono. Ma che altezza? Due scuole di pensiero, a seconda dell’utilizzo. Chi fa VK o Sky preferisce un bastone alto, in pieno stile sci nordico, perché spesso lo utilizza in progressione a due appoggi, tirandosi su con le braccia. Per chi fa ultra, non è consigliato sempre per il discorso del dispendio energetico: in uno sforzo intenso, si cerca la velocità dall’utilizzo del bastone, in una ultra si cerca di economizzare. Gli americani dicono il classico 90° al gomito con il bastone dritto, ma in fondo che ne sanno loro delle Alpi? Quindi io consiglio, nel dubbio, di aggiungere un cinque centimetri, si va meno a cercare l’appoggio e si usa un po’di più in spinta.
Ed ora finiamo con il come. Fondamentalmente ci sono tre tecniche di progressione coi bastoncini.
PASSO ALTERNATO
E’quello comunemente utilizzato, ottimo per la progressione su salite poco tecniche e non troppo ripide, in cui l’appoggio del bastoncino e della gamba sono alternati: gamba destra avanti, braccio sinistro avanti, gamba sinistra avanza, avanza il braccio destro. E’ un gesto abbastanza semplice una volta capito il meccanismo, efficace nel dare ritmo, poco dispendioso, e ci permette di guadagnare distanza con la falcata se siamo al passo.
MC in progressione al Temple of Miles
PASSO SPINTA
E’ l’appoggio combinato e parallelo dei due bastoni in avanti (chi ha finezza di tecnica ne appoggia, come nello sci nordico, uno un pelo prima e più avanti dell’altro), che ci permette di fare forza e “tirarci” su. Si usa sulle salite molto ripide o a risalti, o dove comunque non si riesce a sviluppare un passo alternato efficace. Se in questo modo possiamo aiutarci di più con la parte alta del corpo, ricordiamoci che se usiamo troppo le braccia andiamo spesso a lavorare con la zona lombare in maniera innaturale, inficiando i possibili benefici.
Il Coach si trascina verso il Buco del Viso
CORSA CON I BASTONCINI
Si vede talvolta correre con i bastoncini nei tratti di falsopiano. Qui serve un po’più di agilità e coordinazione per eseguire un passo che ricorda da vicino il vetusto passo svedese o finlandese. Scomparso dalle piste se non nei ricordi di qualche purista o negli incubi degli Aspiranti Maestri, ha trovato applicazione nella corsa. Si usa più che altro in brevi tratti di falsopiano o nei rilanci tra un tratto di salita e l’altro per alleggerire un po’i carichi e far lavorare i muscoli delle gambe diversamente. E’molto efficace, ma decisamente dispendioso.
Quando King Luigi chiama, la DU Army risponde: non potevamo lasciarlo solo nella sua prima 100 miglia. Com’è andata? Abbiamo provato a raccontarvelo in cinque, vediamo cosa ne esce.
MARIA CARLA: Si, stavolta arriviamo a Londra in aereo (mai darlo per scontato, all’ultima SDW 100 ci arrivammo in auto, giudando da Genova, causa cancellazione del volo poco prima della partenza). Raggiungiamo Luigi nella sua tipica casa inglese con rampicante sul portoncino in legno.
The Manor
Shaping the Masterplan
Ci offre un tea in giardino ed inizia a tirare fuori cartine (del percorso nota del Coach), road book, gel, barrette, materiale obbligatorio e si inizia a pianificare per il giorno dopo. Che arriva in un attimo, vista la partenza da casa alle 3:00 am. Passiamo a prenderlo nel pieno della notte, ed è già sugli attenti davanti a casa. Raggiungiamo il campo di Winchester, salutiamo Claire e Drew, due parole con James, ed in un attimo sono tutti dietro alla riga di partenza con James che dà il via!
James fa le ultime raccomandazioni, nonostante lo sguardo perplesso di Drew.
Miglio tre circa. Quando l’idea di correre cento miglia sembra anche sensata.
Faccio sempre assistenza a Davide quindi mi sembra strano che stavolta lui salga in auto con me. Ci dirigiamo al miglio 22, ed eccoci al Queen Elizabeth Country Park. L’organizzazione di Centurion è come sempre impeccabile! Volontari davvero super efficienti e ogni ben di dio ai ristori. Arrivano i primi, applausi per tutti, giusto il tempo di rilassarci un attimo sul prato ed eccolo! Arriva il nostro uomo, super rilassato prende due cose e riparte sorridente. Lo rivediamo poco dopo al miglio 27, poi miglio 35, ci dice che ha molto caldo ma lo vediamo bene: lui riparte per una bella salita e noi ci dirigiamo in stazione a prendere Ale che gli farà da pacer nelle prima parte. Raggiungiamo Amberley, io e Davide siamo svegli ormai da molte ore ed iniziamo a delirare: non riusciamo più a fare calcoli su orari passaggi di Luigi quindi non resta che aspettare, ci sediamo tutti e 3 sul ciglio della strada e iniziamo a dare soprannomi ai runners che abbiamo già visto passare più e più volte nelle aid station precedenti. Cerchiamo di ricordare quanto tempo prima di Luigi sono passati, e finalmente eccolo! In lontananza sbuca la t-shirt verde, è lui! Arriva da noi e si siede, è stanco e molto accaldato, e non riesce più a mangiare: Ale gli toglie lo zaino, Davide gli bagna la testa e gli porgo una mandorla salata. Riparte in salita camminando, ancora masticando la mandorla salata che credo finirà di deglutire al 50mo miglio, ma gli promettiamo che ci vedremo poco dopo e Ale potrà partire con lui. Ci dirigiamo rapidamente a Chantry Post, dove abbandoniamo letteralmente Ale al freddo e al vento in punta a una collina al miglio 51, ad attendere Luigi per proseguire con lui. Noi proseguiamo diretti verso Washington Village, miglio 54, qui potrà cambiarsi e riposarsi un po’. Chiedo la drop bag ai volontari, mi metto in un angolo e tiro fuori il necessario dalla borsa di Star Wars che ci ha meticolosamente preparato Luigi (dimenticavo: Darth Vader era il quarto della crew, ci ha fatto compagnia in ogni aid station).
Midday heat…
… the shit hit the fan
Usciamo ed eccoli sbucare, Ale era preoccupato ma in poche miglia l’ha già tirato su alla grande: si siede, si cambia, mangia un po’ di pasta (gli avanzi li sbrana il coach, che si lamenta che un po’ di parmigiano ci sarebbe stato bene). Ripartono tutti e due super carichi.
Ho perso la cognizione del tempo, non so più da quante ora corra Luigi, ma ricordo che arriviamo al miglio 70, Clayton Windmills, al tramonto: cielo sui toni del rosso, colline, muretti in pietra e pecore, tante pecore! Cambio pacer per Luigi che riparte con Davide e compagno di viaggio nuovo per me che riparto con Ale. Cerchiamo un market aperto, ma inizia ad essere tardi e stanno tutti chiudendo, Ale guarda la mappa e vista la vicinanza dice “potremmo quasi cenare a Brighton”. Cambia subito idea dopo la mia partenza in contro mano… e si accontenta di un Tesco aperto fino a mezzanotte!
Miglio 84, inizia a fare freddo, speriamo di trovare un Pub aperto per un caffè ma niente, aspettiamo un po’ con Tim, che si sorseggia la sua lattina di birra, ed eccoli! Ci fiondiamo su Luigi per capire se ha bisogno di qualcosa ma lui vuole solo un WC. Domandiamo ai volontari ma è chiuso… Ci rimane così male che abbiamo appena il tempo di riempirgli le borracce e riparte. Dai, ci siamo quasi, miglio 89, li aspettiamo col nostro bicchierone di caffè che finalmente abbiamo trovato in un’area di servizio, sbucano dal sentiero e Luigi sta benissimo, è in up totale, corre come un pazzo.
Raggiungiamo Anna al campo di Eastbourne, e facciamo il tifo ai finisher, Ale si congratula con un runner, che invece di ringraziare lo guarda male: capiremo dopo che era appena sceso dal bus “del disonore”.
Le prime luci dell’alba illuminano la pista ed eccoli comparire, ultimo giro di campo ed è fatta! Abbraccia forte Anna, foto di famiglia sotto l’arco e via. Missione compiuta, sub 24.
Per l’organizzazione, che come ho detto sopra è davvero impeccabile: “il trail running è una cosa seria” (cit. Quello che dorme a fianco a me). Non voglio più vedere pirati ai ristori e Hawaaiani all’ arrivo: mi hanno rovinato tutte le foto!
Pirates suck, senza offesa.
LUIGI: Per celebrare i miei dieci anni da runner avevo deciso di provare a fare un personal best su tutte le distanze classiche, da 5km a 50 miglia, ma per rendere l’anno ancora più interessante mi ero anche iscritto alla mia prima 100 miglia, la South Downs Way, organizzata dai mitici Centurion di cui ho corso tutte le 50 (svariate volte).
La 100 mi ha sempre affascinato e spaventato in egual misura. Ho fatto da pacer in tre occasioni ed ho visto con i miei occhi quale impegno mentale e fisico fosse necessario e non vedevo l’ora di cimentarmi sulla distanza anche io.
Il training serio è cominciato durante le vacanze di Natale 2017, dopo mesi a recuperare due ginocchia mal messe.
Per sei mesi non ho pensato ad altro che al giorno della gara. Sono stato il più consistente possibile, ho quasi sempre corso 6 giorni alla settimana, ma al contrario degli anni passati, appena sentivo un qualsiasi problemino presentarsi ho sempre preferito saltare uno o due giorni.
Il lavoro e’ stato duro, dai primi blocchi incentrati sulla velocità agli ultimi con più lunghi. Coach Davide mi ha aiutato a dare più varietà alle mie uscite, normalmente tendevo a ripetere la stessa routine per 6 settimane. Invece questa volta avevo sempre un bel mix di cose da fare, alcuni allenamenti esotici che non avevo mai fatto e che a volte richiedevano parecchia concentrazione e uso della matematica, cosa difficile quando corri al mattino prestissimo ancora addormentato.
Avrei voluto fare piu’ lunghi, sopratutto back to back nei week end ma ho comunque fatto delle belle avventure sui sentieri con il mio training partner preferito Alessandro, inclusa un’uscita notturna proprio sulla South Downs Way, esperienza bellissima.
Sono quindi arrivato al giorno della gara mentalmente preparato ed avendo già fatto nel corso dei mesi gare più corte, che mi hanno dato sicurezza.
La cosa che poi mi dava più tranquillità era sapere che avevo una crew fenomenale: coach Davide, MC e il sopracitato Alessandro.
Il giorno prima della gara abbiamo pianificato bene dove incontrarci e cosa avrei messo nella drop bag e tutto il resto della logistica. La notte ho dormito due ore. Un po’ per la sveglia presto e un po’ perché addormentarsi era impossibile.
Dawn on the Downs
Alla partenza cercavo di non far vedere quanto fossi teso. L’emozione era a mille, avevo pensato a questa giornata così tanto nei mesi precedenti. Mi sono fatto tanti di qui film mentali e immaginato infiniti scenari, da successi inaspettati a disastri epocali. Ma come siamo partiti ho dimenticato tutto: sono entrato in modalità gara, ovvero muoversi il più veloce possibile conservandomi al meglio. La mia strategia era correre con lo stesso effort della 100k fatta l’anno scorso e poi sperare che per gli ultimi 60k i miei pacers facessero il loro lavoro psicologico tirandomi.
Giornata bellissima, le South Downs spettacolari, viste mozzafiato, caldo terribile.
Avere la crew che ti incontra ogni due ore è uno stimolo che aiuta a tirare avanti e i primi 50km sono andati benissimo. Poi per il caldo, penso, il mio stomaco si è ribellato e non riuscivo più a mangiare nulla e sudavo, sudavo tanto.
Non ho mai pensato di rinunciare o ritirarmi ma in quel momento mi son detto che non ne avrei mai piu’ fatta un’altra di 100 miglia. Una volta basta, mi sono detto. Mi sento sempre cosi’ mal messo quando sono alla fine di una 50 miglia, ma quel giorno non ero neanche ad un terzo di gara!
Non vedevo l’ora di raggiungere gli 80km e partire con il primo pacer, Alessandro.
A Washington, 54 miglia, mi sono fermato più a lungo, cambiato maglietta e calze e mangiato un piatto di pasta terribile, ma almeno qualcosa ho mandato giù. Di lì in poi solo liquidi e qualche biscotto.
Washington pit-stop
Mi spiace per Alessandro ma i primi chilometri che abbiamo fatto insieme sono stati i più duri. Non riuscivo a mangiare e non avevo più forze, mi girava la testa o mi veniva da vomitare. Mi sono seduto un paio di volte per riprendermi.
Arrivati in cima a Devil’s Dyke con vista Brighton e il sole calante ho avuto un momento di euforia. Pensavo fossimo molto più lontani e ritrovarmi li mi ha dato la carica. In discesa siamo andati come missili fino alla aid station di Saddlescombe (66.6 miglia) dove Alessandro mi ha fatto mangiare di tutto, dal rice pudding dolcissimo a patate bollite immerse nel sale grosso (più sale che patate). Tutto sto cibo mi ha dato una botta allo stomaco che mi ha piegato in due, ma una volta assestato stavo davvero meglio ed abbiamo corso felici e contenti come fossimo appena partiti, più o meno.
Arrivati a 70 miglia Alessandro e Davide si sono dati il cambio e il coach da qui in poi mi ha trainato fino alla fine. Se rallentavo lui se ne andava per cui ero costretto a stargli dietro (o per lo meno quella era la mia impressione). E’ calata la sera e tra una chiacchierata e l’altra siamo arrivati a Housedean Farms (76.6 miglia) dove abbiamo acceso le headlamps e iniziato salite infinite.
Il resto della crew ci ha incontrato al miglio 84 dove speravo l’aid station avesse un bagno, ma siccome era chiuso ce ne siamo andati subito, un biscottino e via.
Ero intento almeno a stare sotto le 23 ore visto che il piano da 22 ore stava sfumando, ma quel tratto fino alla aid station successiva e’quello che odio di più, sia di giorno che di notte: non finisce mai e con 85 miglia nelle gambe e al buio, ti sembra davvero di non fare progressi.
Le gambe andavano bene, riuscivo a correre ancora lento ma andavo e questo mi ha reso felice. I mesi e mesi di allenamenti, le sveglie presto, i sacrifici, di colpo avevano un senso: riuscire a correre ancora dopo cosi’ tante ore e’ una sensazione bellissima. Peccato per lo stomaco ed un singhiozzo assassino che non se ne voleva andare.
Non era ancora ora di piangere di felicita’, mancavano poco meno di 10 miglia alla fine e quelle sono state eterne. Abbiamo anche saltato l’ultima aid station, ma il tempo sembrava infinito. Le salite le camminavo ma non mi sembrava di fare progressi, era come cercare di salire una scalinata rimettendo i piedi sempre sullo stesso scalino. La testa stava perdendo i colpi.
Arrivati in cima all’ultima collina da cui si vede sul fondo Eastbourne e l’arrivo sapevo che era fatta. Stava arrivando l’alba ed ho trovato energie non so dove: abbiamo corso giù per l’ultima discesa ad una velocità che mi sembrava assurda (ma non lo era). Ultimi km su strada ed ecco il campo sportivo, la crew ed Anna ad aspettarmi. Ho fatto il giro del track trattenendo le lacrime, mai stato cosi’ felice e stanco. Che emozioni, ci ho messo poi giorni a ri-catalogare tutte le sensazioni provate in quella giornata. Lunga, lunghissima, ma tutto mi e’ sembrato raggiungibile a quel punto, tagliando il traguardo.
22 ore e 25 minuti, l’obbiettivo principale di stare sotto le 24 ore ampiamente realizzato. Come sempre finita una gara ripenso a tutti gli errori e le piccole o grandi cose che potrei cambiare e finire piu’ in fretta, sono fatto cosi’.
Al di la’ dei tempi, del caldo, sudore, conati, storte, unghie nere e mucche sul sentiero, la cosa che ricorderò di più e che mi farà sempre commuovere, sara’ il supporto che ho avuto dagli amici, venuti dall’Italia apposta per stare svegli ore e ore e aspettarmi in posti insensati in mezzo alla campagna inglese. Con Davide, in quasi 30 anni che ci conosciamo, di cose ne abbiamo fatte parecchie insieme, ma questa giornata e’stata speciale, condividerla con lui le ha dato un significato in più.
The motley crew
In macchina verso il ritorno, mentre Anna guidava, io e Alessandro in coma abbiamo iniziato e progettare quale 100 miglia fare il prossimo anno, perché ovviamente avevo già cambiato idea.
100 miglia sono una bella distanza, va provata almeno una volta. O due, o tre…
ALESSANDRO: Da quando ho iniziato a correre ho sempre avuto il desiderio di vivere l’esperienza della gara come pacer e fare assistenza, per provare dall’esterno come altri affrontano gli alti ed i bassi che si incontrano in gara, dove momenti di entusiasmo e carica si alternano a fasi di stanchezza e difficoltà nel continuare a muovere un piede dopo l’altro. Finalmente l’occasione è arrivata: non appena Luigi, un altro matto con cui ho passato ore e macinato km per mesi e mesi (e quanti ancora ne faremo) tutte le domeniche lungo la NDW e dintorni durante la sua prima 100miglia, mi ha accennato della possibilità di affiancare Davide e MC come assistenza durante la SDW100, ho colto subito la palla al balzo. Quale occasione migliore?
All’inizio mi sentivo un po’ spaesato, non sapevo bene cosa fare: yes ok correre, ma a che velocità? Cercare di spingerlo o solo stare al suo passo? Parlare per distrarlo dai dolori vari che stava provando o stare zitto per non fargli sprecare energie? Una volta partiti, con ancora 50 miglia da fare, tutti questi dubbi e domande sono evaporate in un secondo, tutto è andato come fosse un’altra normale domenica di allenamento passata in giro per Box Hill, abbiamo chiacchierato e intavolato le prossime gare a cui iscriverci (una su tutte la Western hahahahaha), abbiamo spinto quando possibile e rallentato quando ne aveva bisogno, mai camminato perché sapevamo che “il coach ci stava guardando”; taking our time ad ogni ristoro dove ho cercato di fargli mangiare kg di patate strasalate e rice pudding mentre gli riempivo le borracce.
Camminare in salita? Ancora ok in determinate circostanze. Fermarsi per fare una foto? Hell, no!
È stato ancora più chiaro durante quelle 4/5 ore cosa si attraversa durante gare del genere, momenti in cui sei a pezzi e maledici il giorno in cui hai deciso di iniziare a correre o almeno provarci, a momenti in cui ti senti un dio e ti sembra di volare e già pensi a quando taglierai il traguardo, al prossimo challenge, o che appena torni a casa ti iscrivi subito alla prossima gara. E come dimenticare la vista del ristoro all’orizzonte? Che gioia!
Una volta mollato Luigi a Davide, con ancora circa 30 miglia da fare, ho continuato con MC come assistenza, ed anche questa è un’esperienza che consiglierei a tutti di provare. So quanto aiuta psicologicamente incontrare lungo il percorso facce conosciute che con una parola ed una pacca di incoraggiamento ti ricaricano le pile e ti fanno ripartire come nuovo. Consiglio solo di farlo con qualcuno che sappia guidare la macchina andando nel giusto senso di marcia (vero MC? Hahaha).
Ale resta con Darth Vader…
… noi ripartiamo!
DAVIDE: Potrei chiuderla lì dicendo che è stata una delle giornate di corsa più belle della mia vita, ma non direbbe granché. Allora provo a spiegare.
In primis, c’è un amicizia che è passata attraverso anni, nazioni, continenti, vacanze, pomeriggi sprecati, mattinate peggio ancora (visto che saremmo dovuti essere a scuola), concerti, corse, mail, messaggi, telefonate e training plan mostruosi da nove mesi messi giù giorno per giorno (nessuno ha ancora scritto che Luigi è maniacale?).
Poi c’è il dove: la South Downs Way è il mio luogo del cuore, con i suoi paesaggi verdi e l’aria sorniona, i paesini con i pub che ti chiamano dentro come un novello Ulisse e le fattorie che sbucano nel mezzo della campagna, l’erba tagliata ed i sentieri di terra battuta morbida. Ricordi di una giornata fantastica nel 2013, condivisa magicamente con l’amico Massi e tutta la crew. Gli amici di Centurion.
Sirene 1 – Ulisse 0
E poi la distanza: dite quello che volete, cento miglia restano una pietra miliare. E’una distanza arbitraria, dite voi? Si, vero, ma anche 42,195 è una distanza arbitraria. Idem 1,609 metri. Eppure si portano dietro la leggenda. E lo stesso le cento miglia: la gara dove vedi passare tutta una giornata come metafora della tua vita, come dice Ann Trason. Quella dove puoi (sportivamente) morire e risorgere. Svariate volte.
Con questi ingredienti, guardando indietro, sembra quasi obbligato che la giornata andasse come è andata. Ma per chi era lì (specie per Luigi, direi) non è stato così semplice.
Il merito va tutto a lui, che non ha sbagliato niente: è partito al ritmo giusto e lo ha semplicemente tenuto, rimanendo attento e reattivo a tutto quello che succedeva. Da manuale. E così invece di fare “good cop, bad cop” mi sono semplicemente goduto qualche ora sulla SDW come se andassimo a spasso: pure magic.
Il momento più bello? Quando abbiamo visto lo stadio di Eastbourne dal trigger point sopra la città: mi è venuto in mente lo stesso identico momento del 2013 ed Andrew al mio fianco nel mio ruolo. Ho capito cosa provava Luigi in quel momento ed il cinque che ci siamo scambiati lassù valeva più di diecimila parole, post, foto e tabelle.
E il fatto che avesse lo stesso maledetto singhiozzo di trent’anni fa, in qualche modo ha reso la cosa ancora più fantastica.
Come in uno degli LP che insieme abbiamo consumato: “We’ll go our way. We may have changed, but we’re still here and we came to play… It’s how we are”.
ANNA: Premessa: non corro e non sono un’appassionata di corsa. Pur essendo una persona sportiva – nuoto, ballo e vado in palestra almeno 4 volte alla settimana – non ho mai capito fino in fondo cosa spinga una persona a correre per ore e ore. Per di più su percorsi che prevedono salite e discese…
Quindi quando Luigi ha cominciato a correre in modo serio, fino ad annunciarmi che avrebbe fatto la 100m race, non ho dimostrato un grande entusiasmo. Mi preoccupava (e preoccupa tuttora) la possibilità di farsi male e di avere dei problemi post-gara.
Luigi si è allenato seriamente x questa gara (e tutte le precedenti), dimostrando una dedizione ammirevole.
La cosa più bella? Vederlo tagliare il traguardo alle 4 del mattino e ricevere il suo primo abbraccio.
Speravo non mi dicesse “la prossima 100 mile race che farò sarà…”, ma quella è un’altra storia!
Il nostro gear geek Andrea Vagliengo analizza una delle questioni più calde per noi ultrarunner: meglio correre con un running vest o una hand bottle? Comodità, tradizione, filosofia, attitudine personale… vediamo come scegliere la soluzione migliore in base a necessità e condizioni.
Per anni, la diatriba che ha acceso gli animi dei runner riguardo all’attrezzatura da utilizzare non tanto in allenamento, quanto soprattutto in gara si è concentrata sul trasporto dell’acqua: prima di ogni altra cosa, infatti, quando siamo in giro per sentieri dobbiamo pensare a rimanere idratati. Storicamente, i metodi più utilizzati per il trasporto dei liquidi sui sentieri sono stati principalmente due: il cosiddetto camelbag o le borracce.
Go far, go big: la Sacca idrica
Per noi europei la questione è storicamente abbastanza lineare: in montagna ci si va con lo zaino, punto. Se serve per correre lo zaino si rimpicciolisce e diventa leggero come una piuma, passando dai 30 litri di un day-backpack tradizionale ai 5, 10 o massimo 15 litri di quelli da trail, ma sempre di zaini stiamo parlando. Possiamo ringraziare il lavoro di ricerca e sviluppo portato avanti negli anni da molti brand internazionali, che ha fatto sì che oggi persino noi peones si possa correre con zaini “vest”, ovvero a forma di gilet, straordinariamente leggeri, funzionali e confortevoli.
Da sx: Hydrapak Elite 1,5 L – Camelbak Crux 1,5 L
I vantaggi offerti da questa prima soluzione sono molteplici:
Grande capienza grazie alla possibilità di trasportare fino a due litri di liquidi
Facilità di accesso all’acqua: una volta posizionato, il tubo è sempre a portata di mano, il che aiuta ad assumere i liquidi con la giusta frequenza
Una buona autonomia quando non si è sicuri di trovare acqua lungo il percorso
Esistono però degli svantaggi:
Sono difficili da pulire e da far asciugare (anche se sono stati fatti notevoli passi avanti dalle aziende specializzate del settore per semplificare la vita ai runner, in questo senso)
Utilizzarli in gara è laborioso perché vanno tirati fuori dallo zaino, aperti, riempiti e reinfilati dentro, il tutto nella bolgia di un ristoro affollato e magari quando si ha anche una discreta fretta di ripartire
Rimanendo sempre a contatto con la schiena, è pressoché impossibile evitare che l’acqua si scaldi
Go fast, go hand held: le Hand Bottles
Da sx: Camelbak Quick Grip Chill – Ultraspire Iso Versa – Nathan Speedmax Plus
Ora immaginate di correre sempre e solo su sentieri burrosi e filanti, in condizioni metereologiche miti, correndo alla peggio il rischio di prendersi un po’ di pioggia senza mai sentire la necessità di indossare un guscio impermeabile: ecco, magari in questo caso l’idea di portarvi uno zaino in spalla per tutto il tempo potrebbe non suonarvi entusiasmante. Negli States, paese con una tradizione di ultrarunning profonda e molto radicata, la semplicità ha sempre vinto sulla tecnologia: se mi devo portare da bere, allora tanto vale usare una semplice borraccia e portarla a mano. Semplice, no?
Vantaggi delle hand bottles:
Grande vantaggio di lasciare libera la schiena e i fianchi, zone del corpo fondamentali per la termoregolazione che, se coperti, possono rendere più difficoltosa la dissipazione del calore e quindi compromettere in un attimo tutto il nostro equilibrio termico, facendoci sudare più del necessario
Comodissime in gara, quando la necessità di monitorare facilmente la quantità di liquidi che stiamo consumando è particolarmente sentita
Riempire le borracce ad un’aid-station è semplice e veloce, le possiamo anche usare come bicchiere in caso di necessità
Svantaggi delle hand bottles:
Non avendo uno zaino con capacità di carico, trasportare del materiale (obbligatorio o meno) diventa più complicato. Affontare un UTMB così sarebbe quantomeno laborioso, seppure possibile: Kilian ottenne la sua prima vittoria all’UTMB trasportando tutto il materiale obbligatorio senza utilizzare alcuno zaino
Con le borracce a mano diventa pressoché impossibile utilizzare i bastoncini, così utili nelle nostre gare di montagna con tanto dislivello
The Soft Flask revolution
Negli ultimi anni, il mondo delle attrezzature da trail ha vissuto una vera e propria rivoluzione, che ha letteralmente stravolto il mondo delle borracce da running: l’introduzione sul mercato delle soft-flask, ovvero borracce morbide realizzate con un materiale analogo (nella maggior parte dei casi identico) a quello delle sacche idriche, che vanno a sostituire le classiche borracce rigide combinando comodità di utilizzo a pesi minimi e grande comfort durante la corsa.
I primi ad introdurle, manco a dirlo, furono i ragazzi di Salomon negli anni della grande innovazione guidata da Kilian e dal team S-Lab. Gli altri produttori seguirono a ruota, cavalcando l’onda e declinando l’idea in una quantità di maniere diverse, a tutto beneficio di noi appassionati. Invece di usare solo borracce in plastica rigida, che sovente diventano fastidiose a contatto con il costato e che tendono ad oscillare parecchio durante la corsa, l’idea di utilizzare delle flask morbide, strette e lunghe, posizionate direttamente sugli spallacci degli zaini vest si è immediatamente rivelata ingegnosa e molto remunerativa: nel giro di una sola stagione, il popolo del trail aveva eletto le soft-flask ad accessorio del momento, e a buon diritto.
Da sx: Ultimate Direction Amp – Salomon SLab Soft Set – Osprey Duro Handheld
Per non farci mancare nulla, possiamo anche utilizzare le soft-flask in modalità hand held, tenendole in mano come faremmo con una qualunque borraccia rigida. I sistemi di questo tipo ormai abbondano sul mercato e sono tutti interessanti, sebbene la mancanza di struttura tipica della soft-flask ne renda più difficoltoso l’utilizzo quando la borraccia comincia a svuotarsi. Da provare, è il classico “do or don’t”: o le amerete alla follia, oppure non le sopportete.
Quindi? Cosa ci conviene usare e quando?
Zaino:
Io lo uso molto spesso, praticamente ad ogni uscita più lunga di 20 km, perché mi piace avere le mani libere e, abitando in Piemonte, per otto mesi l’anno mi tocca portarmi dietro almeno una giacca impermeabile e qualche altro ammennicolo di abbigliamento (un buff in più, un paio di guanti, cose del genere). Non sono un grande amante del camelbag, l’ho usato durante i primi anni di corsa sui sentieri poi l’ho progressivamente abbandonato, preferendo quasi sempre le borracce soft.
Da sx: Osprey Duro 1,5 – Ultimate Direction AK 3.0 – Salomon SLab Sense 8
Sempre più diffusi sono poi gli zaini da donna, strutturati appositamente per adeguarsi in maniera ottimale alle forme femminili. Più spazio e apertura sul petto, dunque, ma anche un giro spalla ben proporzionato e geometrie dedicate al fisico femmile, tendenzialmente più esile e meno corpulento di quello di uomo. Anche qui, grande varietà e massima possibilità di scelta: bellissimo il Vapor Howe, realizzato insieme alla vincitrice della Western States 100 Stephanie Howe (utilizzabile sia con camelbag sia con le soft-flask frontali); interessante e ricca di proposte interessanti anche la linea di Jenny Jurek, moglie di Scott, prodotta da Ultimate Direction, che offre un’ampia gamma di prodotti dedicati alle runners appassionate di sentieri.
Da sx: Nathan VaporHowe 12 – Ultimate Direction Vesta – Ultraspire Astral
Hand bottle:
Le borracce a mano le adoro in bella stagione: le uso tantissimo quando esco in modalità “shirtless”, solo in pantaloncini corti e visiera, ricercando nella mia ombra qualche sembianza di Anton Krupicka, Geoff Roes o Hal Koerner.
Ci metto sempre un po’ad abituarmi al fatto di avere un peso in mano, soprattutto se uso una sola borraccia, ma l’adattamento è sempre più veloce, anno dopo anno. Per certi versi usare le borracce a mano mi aiuta addirittura a migliorare la postura di corsa, smanacciando di meno e tenendo le mani più vicine al corpo.
Quando uno zaino ti salva la gara: Kilian Jornet verso la vittoria alla Hardrock 100 2017 con una spalla lussata infilata negli spallacci del suo Salomon Sense Ultra 8.
THE GEAR GEEK SAYS:
La mia configurazione preferita, rimane quella che combina zaino e soft-flask: molto semplicemente, combina il meglio dei due mondi. Ci si può portare dietro il materiale che ci serve senza lesinare, si hanno le mani libere e la possibilità di utilizzare i bastoncini in caso di necessità, e non si deve rinunciare alla comodità di avere le borracce (riempimento semplice e veloce, visione immediata di quanta acqua rimane al loro interno). Oltretutto, gli ultimi zaini vest permettono di bere dalla borraccia senza neanche estrarla dalla sede, piegando semplicemente la testa per avvicinarla al beccuccio. Priceless.