Personaggio ancora poco conosciuto in Europa, Rich Roll è negli States una vera e propria personalità. Il suo podcast è seguitissimo ed ha intervistato nel tempo ospiti diversissimi: atleti della corsa come Rickey Gates, Amelia Boone, Gwen Jorgensen o Kilian Jornet, atleti di sport vari come Lindsay Vonn, ma anche attori come Edward Norton o personalità varie (come John Joseph dei Cro-Mags, scusate la lacrimuccia).
Il libro FINDING ULTRA è un po’la narrazione del suo percorso e della sua trasformazione, da nuotatore ai tempi dell’università (in NCAA Division 1 e nientemeno che a Stanford) fino ad una discesa nel mondo dell’alcool da cui Rich riuscirà ad uscire grazie ad un processo di rinascita spirituale e fisica che lo porterà al termine di ULTRAMAN ed altre prove di Triathlon o corsa estreme come Badwater. Centrale nella narrazione, il cambiamento avvenuto grazie al passaggio ad una dieta plant based e come sia stato anche un viaggio introspettivo alla ricerca di un significato diverso nella quotidianità.
Ben scritto e tutto sommato scorrevole, specie nella parte iniziale, diventa forse un po’didascalico nella narrazione delle sue imprese, ma è sempre molto equilibrato. La parte sull’alimentazione è ben scritta senza diventare “pesante” o incline al proselitismo, così come quella più spirituale sulla purificazione: è una narrazione asciutta ed il libro è ben tradotto, cosa non facile quando si ha a che fare con ambienti così specifici. Molto interessante l’appendice piena di risorse e i dati scientifici sono contestualizzati e correttamente annotati.
Insomma, nonostante una mia certa reticenza verso i libri motivazionali di redenzione, l’ho letto volentieri e ho trovato spunti interessanti. Certo, un po’difficile da contestualizzare certe situazioni sociali nella nostra realtà, ma come detto, è piacevole e permette di capire meglio il personaggio.
Coach D
Roll Rich, Finding Ultra, 2020, Piano B edizioni, € 16,00
Ed eccoci di nuovo a parlare della triade nascosta: riposo, recupero, rigenerazione, il mantra che ogni allenatore vi ripete fino alla nausea.
In questa seconda puntata, affrontiamo un argomento delicato: il post corsa dei nostri piedi , uno strumento che un po’troppo spesso dimentichiamo di trattare con il dovuto rispetto. Quindi, cosa si infila nei piedi lo staff DU quando smette di correre?
E’presto detto: flip-flops e sandali OOFOS.
OOFOS è un marchio americano che nasce con l’idea di creare una calzatura da indossare post workout studiata appositamente per il recupero.
La struttura della ciabatta è stata creata per fornire supporto all’arco senza diventare invasiva, accomodando il piede senza costrizioni e sostenendo nei punti giusti. Ma la parte migliore delle calzature OOFOS è sicuramente per noi il materiale: quella che viene chiamata OOFOAM permette alla calzatura di piegarsi in maniera naturale con il piede ed ha una morbidezza confortevole senza far sprofondare il piede.
Il materiale OOFOAM assorbe gli impatti fino al 37% in più di un tradizionale materiale in EVA: se nella corsa cerchiamo sempre una scarpa che ci “restituisca” il più possibile la potenza che cerchiamo di trasferire a terra, quando è ora di riposare, dobbiamo cercare il contrario. Una ricerca di laboratorio del 2018 ha evidenziato come l’accoppiata OOFOAM + struttura del plantare permette di ridurre lo stress sulle articolazioni fino al 20% in più di una normale ciabatta.
OOFOS può essere anche un buon aiuto per chi soffre di fascite plantare: la sua struttura e la capacità di assorbire urti aiuta a rilassare la fascia nei momenti in cui l’infiammazione è acuta, dando sollievo.
Ah, il materiale con cui sono fatte le OOFOS mantiene le sue caratteristiche per tutta la vita. Oltretutto, avendo una struttura a cellula chiusa, può essere tranquillamente usato in doccia o in acqua senza assorbire acqua. Si possono lavare quante volte volete e galleggiano anche.
Ma sentiamo cosa ne pensa Coach Davide…
Anche se Mari non ha mai gradito questa mia debolezza, sono sempre stato un grande appassionato di ciabatte ed infradito post gara (più le ciabatte in realtà, ma apprezzo entrambe le declinazioni).
All’inizio usavo le classiche infradito da 1 euro, rigorosamente nere (tranne un paio carioca acquistato in Svezia in una svendita). Poi ho provato quelle di plastica di Boulder con un coccodrillo (dai, le Crocs), ma mi facevano sudare il piede e non le ho mai trovate realmente confortevoli. E diciamocelo, nessuno sta bene con un paio di Crocs ai piedi. Anzi. Allora sono passato ad un famoso marchio tedesco, ma nonostante mi sia sforzato di farmelo piacere, esteticamente mi ricordavano le suore e la sensazione sul mio piede era pessima: se ero stanco dalla corsa, con quelle i piedi prendevano la botta finale. So che tanti le usano e si trovano bene, ma io volevo comfort, non rigore teutonico. Insomma, mi sono convinto a provare un paio di ciabatte pensate appositamente per il recupero.
Viste, calzate ed immediatamente venduto all’idea: la sensazione al piede, la comodità, il sollievo dopo i lunghi… con l’importante aggiunta che le OOFOS (contariamente ad altre recovery slides provate) non fanno sudare il piede. E una volta indossate non sono niente male, anche Mari ha dovuto ammetterlo.
Insomma, aldilà della ricerca scientifica o di cosa consigliamo, dove mettere i piedi è sempre molto soggettivo. A noi OOFOS sono piaciute a sensazione, al primo contatto: dopo una giornata stressante di Camp, dopo un workout duro in pista con i piedi massacrati, dopo un lungo di ore, ci piace averle dietro e poter iniziare da subito a recuperare per poter ripartire il giorno dopo “acannone” (Angelo Maroccia docet).
Trovate le ciabatte OOFOS qui, ma se passate dalla DU House o ai nostri Camps, ne abbiamo sempre qualche paio per farvi provare il feeling…
Credo che Francesco sarebbe la gioia e disperazione di ogni Coach. Tanto talentuoso e capace di saper scavare a fondo, quanto indisciplinato ed anarchico. Ma è una persona intelligente, in primis, e poi esprime una gioia con la corsa che gli si perdonerebbe (quasi) tutto. Continuo a credere di riuscire un giorno a convertirlo ad un approccio quantomeno “non schizofrenico“, ma quando ho pensato ad una persona che nella dimensione FKT può davvero esprimere il proprio estro, lui è il primo che mi è venuto in mente. La nostra personale battaglia continua, comunque.Coach D.
Il meraviglioso mondo degli FKT (Fastest Known Time) è già stato introdotto nel blog da Paco e discusso ampiamente nell’ultima puntata di “True Commitment”. Per gli smemorati: prendi un percorso, che sia già stato fatto o che possibilmente qualcun altro in futuro sarà interessato a ripetere, corrilo e cerca di essere il più veloce possibile.
Ci sono delle varianti e qualche accorgimento ma sostanzialmente è molto semplice: dei chilometri, un orologio che parte con te e si ferma solo alla fine, il proprio fiato. Per gli amanti dei dettagli (o del farsi problemi laddove non ce ne sono) c’è un sito che dice tutto quello che c’è da sapere su questo tipo di sfide. Personalmente non lo conoscevo e non ho neanche molta voglia di andare a guardarlo quindi da questo punto in poi si prosegue con la mia personale visione e opinione dei FKT.
A me i FKT sono sempre piaciuti, anche prima che sapessi si chiamassero così. Da “segmenti” di pochi km a viaggi con migliaia di metri di dislivello. Si esce un po’ dal mondo delle gare. Si parte da un percorso che si ha già in testa per qualche strano motivo o attrazione, lo si pianifica a proprio gusto con più variabili e poi via, di cavoli propri. Ho sempre sentito i FKT molto più miei delle gare, sono sempre stato meglio che durante le gare, mi hanno dato più soddisfazione di molte gare (ma c’è da dire che io nelle gare mi ritiro).
Personalmente riconosco tre modi diversi di fare un FKT:
Avventura: un viaggio da solo, autogestito il più possibile, con infinite variabili e imprevisti che non si può prevedere. Alla scoperta di sentieri un po’ nuovi, un giro disegnato con un po’ di fantasia e creatività su una mappa in posti che si cercava una scusa per andarci da un po’.
A bomba: una sfida fisica, sentieri che si conosce quasi a memoria, sasso per sasso. Tutto pianificato fino all’ultimo dettaglio, fino all’ultima lepre per metterci meno possibile su sentieri che si sente casa propria.
Assistenza: accompagnare un amico/a nella sua sfida personale, probabilmente a bomba ed essere partecipe dell’altrui obbiettivo per scroccare un po’ di felicità da cosa bella.
Prima dell’emergenza Corona-Virus, per questo 2020 avevo pianificato di farne uno per tipo. Adesso che sono saltate le gare… beh in realtà non cambia quasi niente. Ma per oggi scriverò solo del primo, quello più viaggio, anche perché degli altri due Coach Grazielli è venuto a sapere leggendo ora queste righe.
Il mio primo FKT si chiama “Dolomiti di Brenta Trek”, un anello alto delle Dolomiti di Brenta, 89 km e 8200 d+ da guida ufficiale (www.dolomitibrentatrek.it). Tutto corribile. Tentativi noti, nessuno. Tempo stimato per persone allenate: 6 giorni. Ore necessarie da tabella CAI senza soste: 43. Quota: tra i 1500 m e i 2500 m. Bei numeri
Mi è venuto in mente 2 anni fa mentre mi trovavo là in mezzo. Mi piace perché questi posti li ho un po’ nel cuore eppure non li conosco ancora così tanto, perché è un anello, perché è tecnico. Semplice
Scelto il misfatto rimane quindi da rispondere alle domande pratiche: Come? Dove? Quando? Perché?
Come?
Bisogna essere allenati, certo, la parola qua dovrebbe averla il Coach ma mi ha lasciato carta bianca e quindi scrivo il cazzo che mi pare. Non credo di dovermi allenare in modo tanto diverso per questi 89 km se non, Covid permettendo, di abituarmi di nuovo a passare tante ore in montagna. Le difficoltà del percorso saranno le lunghe e ripide salite e discese e la tecnicità di certi tratti, ma , ehi, me lo sono scelto io quindi queste cose sono esattamente quelle in cui in cui mi trovo più a mio agio e su cui quindi passo più chilometri il resto del tempo.
Considerando che l’idea è di farla in avventura, quindi zainetto e via e ci ristora solo in rifugi, torrenti o piante di mirtilli, una parte fondamentale ce l’ha con cosa partire. Da esperienza so che in uno zaino da 5 L riesco a fare stare tutto ciò che mi serve:
Cibo
1 L acqua
Goretex
Telo termico
Fischietto
Berretto
Maglia termica
Guanti
2 X Buff
Telefono
Cartina “Dolomiti di Brenta”
Bastoncini
Orologio GPS
Occhiali da sole
Mini kit medico
Soldi
Materiale aggiuntivo: ramponi in caso di neve/ghiaccio quota, kit da ferrata e casco che devo ancora capire come sono i punti più critici. Ovviamente in questi casi lo zaino diventa più voluminoso.
Per il cibo, ci si adegua ai rifugi quindi conoscendomi sarà un tripudio di Coca Cola, Radler, panini con lo speck e strudel. Probabilmente con me porterò qualche gel, delle Kinder Brioss e dello sgombro sott’olio per le emergenze. Fortunatamente riesco a bere molto poco, ho lo stomaco ricoperto di ghisa e quindi la parte di alimentazione e idratazione è quella che mi preoccupa meno di tutte.
Alla fine, il segreto è ricordarsi di essere comunque impreparati e quindi doversi aspettare di tutto e di più. Qualcosa andrà storto per forza ma così è ancora più divertente.
Così sembra anche corribile.
Dove?
Le Dolomiti di Brenta, ovvio. Si, ma da dove? La bellezza di fare un giro così ad anello è che si può partire da dove si vuole (basta ritornarci) e nel senso che si desidera. Questo forse non va bene secondo le regole ufficiali del FKT ma come cantava Achille Lauro vestito da ciclista: me ne frego. Da cartina ci sono moltissime vie di accesso al Dolomiti di Brenta Trek. Per gusto personale, anzi per amore, partirei da Malè, Val di Sole, salirei al Rifugio Peller, punto più settentrionale del sentiero, e partirei in senso antiorario verso la Val Rendena, giro intorno Cima Tosa, avvistamento di Andalo e Molveno, dritto verso la Val di Non e poi tana libera tutti.
Quando?
Visto quota e situazione pandemica, il periodo migliore sarebbe agosto-settembre, in modo che neve ce ne sia poca e i rifugi magari abbiano ripreso a lavorare (più per loro che per necessità mia). Se mi aspettano 89 km con 8200 d+ potrei stimare per eccesso un tempo necessario intorno alle 16 ore. Quindi la cosa migliore sarebbe partire per le 4 di mattina e cerca di arrivare entro il tramonto con il mix di motivazione cronometrica e solare. Possibilmente un giorno della settimana in cui dopo non debba lavorare. Poi, magari non si può uscire, magari salta tutto, ma le montagne restano e questo sogno nel cassetto pure.
Il cartello da cui è nato tutto
Perché?
Perché mi va. Perché quelle montagne mi piacciono tanto e lassù da solo in distanziamento sociale so che mi vengono le farfalle allo stomaco (non crediate che a farla come FKT non ci sia il tempo per ammirare tutto quello che ci si circonda, al massimo il rischio è cadere ogni due metri!). Perché ho scoperto che a fare un FKT così, in avventura per tutto il tempo necessario a completarlo mi sento bene, mi sento veramente a mio agio con tutto. Libero. E non ho mai pensato “quanto manca?”, come in gara, piuttosto mi sono detto “vorrei che mancasse di più!”. Questo genere di cazzate per quando appaiano sadiche ai più mi hanno sempre fatto tornare a casa con il doppio di energia e per quanto controsenso possa esserci la settimana dopo corro anche più forte. Quindi, perché no?
L’avete sentito dire un milione di volte: riposo, recupero, rigenerazione, ogni allenatore ve lo ricorderà un milione di volte. Ben sapendo che non sempre gli darete retta, ma lui stesso ci è caduto, quindi sotto sotto vi capirà anche. Ma resta il fatto che è un punto cruciale, altrimenti tutto il bel lavoro fatto nei giorni attivi, resta lì e non si trasforma mai in qualcosa di stabile.
Ma cosa può aiutarci nel recupero dopo i nostri allenamenti o le gare? Abbiamo deciso di provare a mettere giù qualche idea di strumenti e metodi che noi utilizziamo.
THERAGUN è l’invenzione di Jason Wersland, un chiropratico americano che in seguito ad un incidente di moto si è trovato a fare i conti con dolori cronici. Ma l’idea della percussive therapy non è certo una novità, a partire dalla tecnica svedese di massaggio chiamata tapotement: la novità di Theragun, è che rende questo tipo di intervento possibile e somministrabile da tutti in autonomia e sicurezza.
Ma cosa intendiamo con percussive therapy? Semplice,è un metodo per indurre delle brevi ma intense pressioni sui tessuti del corpo. Va a lavorare sia sulle fibre muscolari superficiali che su quelle profonde grazie alla potenza che sviluppa. Si avvicina al lavoro fatto col foam roll, ma con una facilità di uso ed una capacità di mirare la zona interessata che è difficile da replicare.
Riduce il dolore ed indolenzimento muscolare e ampia il raggio di movimento, ma viene utile anche nel warm up di un workout particolarmente impegnativo per sciogliere zone delicate o a rischio (ischiocrurali o psoas, tanto per dire).
Funziona? Bella domanda. Al momento non ci sono studi medici su un numero di casi consistente che possa dare una risposta concreta. Empiricamente, l’abbiamo testato per circa due mesi noi e alcuni dei nostri atleti in visita o ai camp: la sensazione è sempre positiva e di sollievo, noi ci siamo concentrati su un utilizzo serale prima di andare a letto, tre/quattro minuti per ogni zona muscolare concentrandoci su ischiocrurali, psoas, tensore della fascia lata, gluteo medio, soleo e gastrocnemio e tutta la zona del quadricipite, specie sulla fascia laterale. Lasciando poi le fibre in allungamento la notte, al mattino scomparivano i classici indolenzimenti e doloretti da primi lavori intensi di stagione, lasciandoci pronti al nuovo workout. Da segnalare che ha un effetto positivo anche sull’inserzione del tendine d’Achille, altra zona rossa del runner.
Detto questo, visto che abbiamo l’esperto, abbiamo chiesto a Giovanni Gerbino cosa ne pensa e se il Theragun e la terapia percussiva possono avere un utilizzo per chi corre, specialmente lunghe distanze. Come al solito, non ha deluso.
“La terapia percussiva ha sia un effetto neuro-muscolare che meccanico: praticamente il muscolo viene schiacciato e rilasciato creando un iperemia che fa affluire molto sangue aumentando il metabolismo cellulare intrinseco delle fibre. Pre allenamento prepara il muscolo all’attività, post allenamento il maggiore afflusso di sangue e conseguente vascolarizzazione contribuiscono a trasportare via le scorie del lavoro e rilassare la fibra muscolare”
“Andrebbe evitato dopo allenamenti molto traumatici come sprint secchi e ripetute intense, perché andando a lavorare su una fibra sotto stress potrebbe ottenere l’effetto contrario di contrazione. Il grosso punto a favore di Theragun, è che può essere utilizzato da tutti perché anche nel caso più estremo, è difficile farsi del male. Se ci aggiungi che è facilmente portabile, può essere un buon strumento per atleti che necessitano di sollievo da stati di affaticamento.”
“Nel caso di Theragun, è più corretto parlare di strumento di automassaggio, perché una vera terapia, è ovviamente quella somministrata da un professionista. Ma questo non leva che sono strumenti validi”
Whatever The Doc says, we obey!
Se avete bisogno del Doc e la sua squadra lo trovate qui .
Se volete più informazioni sullo strumento Theragun oppure venite ai nostri camp a provarlo!
Tantissimi mi parlano del Tor come esperienza totalizzante, viaggio mentale e non di una gara, di un viaggio nella natura, di lotta alle proprie paure, di simbiosi con la montagna. Di una classifica che non conta se non per i primi venti…
Ho avuto la fortuna di fare o di correre il Tor quest’anno per la prima volta ed ero agitato per due cose alla partenza e nelle settimane precedenti: primo, ero convinto di aver fatto il passo più lungo della gamba, e questa volta sul serio. Secondo, ero alla partenza di una gara molto impegnativa. Si, ero alla partenza di una gara. Perché il Tor è una gara, anche per me che sono arrivato a Courmayeur in 127 ore e 227° classificato. Malgrado i suggerimenti preziosi di amici illustri del mondo ultra endurance, ho fatto parecchi errori da principiante, soprattutto alle basi vita. Se non hai assistenza, prendi la sacca Tor, cambiati, lavati, sistemati i piedi, prepara lo zaino, mangia, fisio se serve e dormi se serve. Fai tutto in quest’ordine, suggerisce Luca (Guerini ndr). Giusto il tempo di una base vita e tutti i miei piani vanno all’aria: mi trovo a girare in infradito con del cibo in mano
“Allora? Usciamo dal lì o no? Una vita in vacanza?” mi scrive Graziana (Pè ndr) in un messaggio, vedendo che sono ancora in base vita. Col senno di poi, la sola gestione delle basi vita può farti recuperare 5 o 6 ore. Con una gestione meno “vacanza a Rimini” anche dei ristori si possono recuperare altre 2 o 3 orette.
Fin dal primo controllo volevo sapere in che posizione fossi. Sì, dal primo controllo. All’inizio solo per capire come stessi andando. La Thuile 260esimo, prima base vita 490esimo poi sempre meglio. 340esimo, 320esimo attorno al 310 per un po’, poi sotto i 300 nei ¾ gara, poi sempre meno fino a capire che potevo stare sotto le 130 ore e ben sotto la trecentesima posizione. Solo al Malatrà capisco e sono sicuro che posso davvero arrivare alla finish line attorno alle 20 del venerdì. Capite che per uno che non era sicuro di arrivare in fondo o al massimo arrivare di sabato mattino nella migliore delle ipotesi, si stava delineando una vera top performance… e piangevo. Dal Malatrà ho pianto credo 5 o 6 volte. Sono arrivato a Courmayeur correndo e saltando sotto l’arrivo alle 19,11 del venerdì. 227esimo in 127ore e 11 minuti. Pazzesco. Incredulo. Ho concluso uno degli endurance trail più duri e spettacolari in meno di 130 ore; ad oggi non ci credo. Ma allora? Tutta sta storia della testa, della simbiosi con la natura, delle paure e quant’altro? È presente eccome. Se non hai una forza mentale che ti sostiene, quando alle 3 del mattino, da solo, in una discesa ti viene una scossa violenta al ginocchio sinistro che non ti fa camminare e non capisci cosa sia, ti perdi d’animo. Invece ti fermi, ti calmi, cerchi di capire che succede e provi a camminare. Vedi che passa un po’ e continui. Non passa del tutto allora ti fermi. Ti siedi, apri lo zaino, prendi una benda elastica autoadesiva e ti fai una fasciatura più o meno a caso e prendi un antidolorifico. Chiudi tutto, ti alzi e riparti.
Vedi che funziona e arrivi in base vita. La testa al Tor serve a questo. A non perderti d’animo nelle difficoltà. A lasciare il tepore del rifugio di notte con il freddo e il vento quando sai che hai davanti 15 km di nulla con un colle da passare. La testa serve a portare il tuo bel culo a Courmayeur! Anche la simbiosi con la natura deve esserci. Sei lì per quello. Diversamente saresti a una gara di crossfit sulla spiaggia a Riccione. Ma a quello, noi gente di montagna, siamo abituati. Nulla di nuovo sul piatto. Siamo lì anche per quello. E’ la norma. E quindi di cosa stiamo parlando? Di una gran bella gara endurance in montagna. No un viaggio, no vacanza, ma una gara che ognuno dovrebbe affrontare al meglio delle proprie capacità. Non è una gara di corsa e non fa schifo come dice qualcuno. Anzi, è una grande figata da affrontare seriamente. Io questo l’ho fatto a metà perché non avendo quella “spinta da garista” che contraddistingue chi mette pettorali spesso, sono andato piano e sicuramente al di sotto delle mie capacità. Sono sicuro di questo e col senno di poi me ne rammarico. Perché il Tor non deve essere un trekking veloce organizzato? “Non bisogna partire con l’idea che il Tor sia un bel viaggio o un’avventura, al massimo lo puoi pensare alla fine…” mi ha detto Sonia (Glarey ndr) il giorno dopo che assieme a Luca siamo stati a provare una tratta del Glaciers e io ero spaventato della mia gara. Ed ha ragione. Il Tor è una gara, non un viaggio. Sono convinto che tanti che partono con l’idea del viaggio, potrebbero fare meglio se partissero con l’idea della gara. Mettersi in gioco con i propri limiti, non è solo fare i 350km e 27mila metri di dislivello, ma farli al meglio, più forte possibile. Io sono convinto di questa cosa.
Ho letto l’articolo di Paco su questo blog dove dice che il Tor fa schifo perché è un trekking rovinato e non una gara di corsa.
Al massimo ti fa schifo caro amico mio, ma non fa schifo in linea generale. E sì, non è una gara di corsa, ma un ultra endurance trail e così va affrontato. E’ una specialità diversa dal trail running. Lo specialista dei cento metri piani non sarà forte nei tremila siepi. Si corre sempre nello stadio, ma sono specialità diverse. E non fanno schifo né una né l’altra. Una piace e una no. Punto. Idem sono il Tor e una 100miglia trailrun. La Parigi-Roubaix e la Transcontinental Race in bici. Una piace e una no, ma nessuna delle due fa schifo a prescindere. Al massimo ti fa schifo. Il Tor è una grande figata di gara, è una grande sfida con te stesso, con gli altri e con un crono. E così deve essere.
In occasione dell’UTMB, Alessandro Locatelli di BUCKLED ci regala episodio dedicato, e questa volta in studio ha nientemeno che Sara Lando.
Ora, se dicessi che è una fotografa sensazionale la chiuderei in fretta, ma non è in questa veste che la troviamo dietro al microfono. Questa volta mette a servizio il suo occhio sensibile, la sua sagacia, e la sua notevole capacità narrativa, per cercare di spiegare cosa significa vivere un UTMB da fuori.
Ne esce un oretta che fila via liscia: sono sicuro che strapperà qualche risata, e anche che tanti di noi trailer si sentiranno scavati nell’intimo. Proprio come nelle sue foto.
Ah, ho forse dimenticato di dire che Sara è la moglie di Alessandro, e che ovviamente parla della sua esperienza al seguito dello stesso? Beh, ora lo sapete e non potete far altro che rilassarvi e schiacciare play.